Regia di Alice Rohrwacher vedi scheda film
Un ritratto casalingo, ma profondamente accusatore, di un’italianità impastata di un falso senso della famiglia e di una religiosità popolare ridotta a folclore paesano. La condanna passa attraverso una storia tracciata nel suolo aspro e polveroso dell’asfalto consumato, dei terreni incolti, delle discariche abusive, delle spiagge abbandonate. La periferia di una grande città della Calabria è lo scomodo habitat della piccola Marta, che frequenta il catechismo e sta per ricevere la cresima, e della gente che opera nella sua parrocchia, primi fra tutti il sacerdote don Mario e Santa, la sua perpetua nonché insegnante di religione. Una piccola comunità che vuole fare le cose in grande: ma non nel significato auspicato dalla fede cristiana, bensì in quello, ben più prosaico, della festa, dello spettacolo, a cui tutti, adulti e bambini, devono partecipare da protagonisti, in modo da sentirsi importanti. Lo spirito che prevale è un gusto un po’ pacchiano della finzione teatrale, della cerimonia rivestita di una patetica parvenza di spontaneità, che mette in scena una gioia recitata ed una convivialità di facciata, indossata giusto per l’occasione. Si canta, si balla, si mangia per celebrare un corpo di Cristo che non c’è: il figlio di Dio è anima dentro membra nude (come quelle del crocifisso figurativo che, secondo il programma, dovrebbe essere al centro della messa dei cresimandi), mentre, nella realtà, uomini e donne sono solo vestiti vuoti che camminano. La Chiesa esercita il suo ruolo di centro di potere - morale, politico e corporativo – all’interno di una società priva di valori, che non sa dotarsi di principi, né di scopi, ma solo di riti e slogan da mettersi in bocca nelle manifestazioni di massa. Marta ed i suoi compagni devono imparare e ripetere a memoria nozioni bibliche, frasi evangeliche, preghiere, formule liturgiche, testi di canzoni, e la loro preparazione al sacramento si riduce a questo. L’insegnamento non è educazione delle coscienze, ma non è ormai nemmeno più indottrinamento: ha superato anche questa deprecabile fase per ridursi ad un discorso vacuo, di pura forma, in cui nulla è più sentito e, mancando le domande, le risposte sono certezze di cui sfugge totalmente l’utilità. L’essere umano è fatto di carne, come Gesù, ma di questo nessuno parla: l’adolescenza è il periodo delle trasformazioni fisiche, con tutti i problemi che ne derivano, e Santa invita i ragazzi a prenderne atto, senza però dare valide indicazioni sui modi in cui superare i momenti di crisi. Lei stessa è una figura quasi caricaturale, irrigidita nelle sue nevrosi e paranoie, incapace di dare il buon esempio, e completamente succube del parroco, che appare interessato solo alla cura dell’immagine e alle manovre finalizzate all’avanzamento di carriera. L’amore sembra fuggito via da un mondo che accumula beni materiali (denaro, voti elettorali, distese di cemento armato, montagne di rifiuti) ed ha dimenticato la semplicità. Marta, la ragazzina timida, generosa e sensibile, che soffre per quello che le accade intorno, rappresenta tutto ciò che rimane quando i cuori si sono induriti, ed i deboli non hanno più voce. La sopravvivenza della verità è una faccenda solitaria, circondata dall’incomprensione, insidiata dai sospetti di follia: è questo il destino di don Lorenzo, rimasto a presidiare la chiesa di un paesino di montagna ormai disabitato, e dello stesso Cristo, che molti additavano come pazzo. Anche Marta è considerata strana, per il suo atteggiamento refrattario alle tendenze dominanti, a tratti persino apertamente ribelle: il suo gesto di tagliarsi i suoi lunghi capelli biondi è una sfida alla vanità di tante sue coetanee, e, in generale, ad un mito della bellezza e della perfezione che contagia ogni aspetto dell’esistenza, creando stupide avversioni. Marta prova curiosità e ammirazione per quei ragazzi che, con un piccolo motocarro, vanno in giro a raccogliere gli oggetti che altri hanno buttato via. Quello stile di vita è una provocatoria metafora della parsimonia e, soprattutto, della volontà di rinascita, che trasforma lo scarto in qualcosa di prezioso. L’ultima scena riassume, in maniera originale ed efficace, l’essenza di quell’attività ostinata e fervente, che si svolge sotto l’immensa ombra dell’indifferenza: un’azione magari priva di pensiero, perché non determinata dal calcolo, ma, forse proprio per questo, espressione di una libertà vera, non offuscata dai cosiddetti (e maledetti) progetti di “crescita”. Corpo celeste è l’amarezza, tanto innocente quanto profonda, per una sterilità che si fa ignoranza, banalità, grigiore urbano; e, che all’interno di un paesaggio squallido e informe, riesce comunque a dare, alla sua pena, il respiro di una sottilissima poesia.
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