Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film
Le parole, diceva Giorgio Caproni, «dissolvono l’oggetto». Quante parole in La talpa, adattamento di un romanzo - grigio, mesto e bellissimo – di John le Carré. Che in 346 pagine rielabora una storia vera: la sua, quella di David Cornwell (questo il vero nome del romanziere), agente segreto al soldo dell’Mi6 (il Secret Intelligence Service) la cui carriera viene troncata da un doppiogiochista al servizio del Kgb. E dunque La talpa: in cui l’agente George Smiley viene riassunto dal governo per indagare sulla possibile presenza - in una scacchiera minima e ben determinata di pedine sospette - di un infiltrato dei servizi segreti sovietici tra le fila britanniche. Dissolvono l’oggetto, qui, le parole, perché sostituiscono i fatti, in perfetta aderenza con l’Arte della Guerra Fredda. Un luogo della Storia abitato da Eventi sospesi, minacciati, irrealizzati. Un conflitto che non è mai stato paese per Eroi. Per questo l’indagine del protagonista è coniugata al passato, perché nulla accade ora, e dove tutto è già accaduto rimangono solo le parole, vesti di retorica che separano il dire dal fare, la realtà pronunciata dalla verità. Nebbia, sostanzialmente, creata dall’alito di uomini mediocri, impiegati del segreto di stato, parenti di burocrati. Nessun Bond, James Bond. La formula di Alfredson è quella di Lasciami entrare: logica antispettacolare, narrazione organizzata da ellissi sottilmente illuminanti, rigetto della spiegazione, cura minuziosa per il dettaglio rilevatore. Cinema, nuovamente, di genere, privato degli automatismi inebetenti dello spettacolo: il meccanismo dell’indagine diviene gentile e implacabile scavo psicologico, la risoluzione della trama gialla corrisponde a un’implosa agnizione tragica, dietro le maschere si intuiscono abissi di verità non dette. Un cinema che, finalmente, domanda all’intelletto dello spettatore. Gli chiede di orientarsi tra le dimensioni temporali della narrazione, di colmare i vuoti di senso, di sentire, soprattutto, il cuore dell’uomo - il vero oggetto del cinema di Alfredson - sotto la nebbia delle parole, sotto la polvere di un mondo chiuso in interni, sotto la patina accademica di una meticolosa ricostruzione d’epoca. Nota a concludere: negli abiti dimessi, un cast semplicemente sontuoso.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta