Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film
Mezzo passo falso di uno dei più talentuosi registi contemporanei, che accetta di imbattersi in un soggetto lontano dalle sue corde. Revival del grande cinema spionistico inglese degli anni 70, quello di Michael Caine per intenderci, di cui questo "La talpa" ricalca in pieno le atmosfere, gli intrecci, persino i volti. Tutto l'aspetto fotografico, scenografico, musicale, attoriale funziona alla grande. La plumbea atmosfera della Guerra Fredda è resa con grande efficacia. Colpisce in particolare la caratterizzazione delle città (Budapest - Londra - Istanbul - Parigi), tutte cupe e piovose, tutte uguali fra di loro, indistinte cellule endemiche di un Potere assoluto, che livella le diversità culturali in nome di un unico grande impero. La trama è intricata, cervellotica; i tempi pacati di Alfredson favoriscono l'assimilazione dell'intreccio, che tuttavia rimane opaco. Ma il dato più interessante e significativo di quest'opera sta nel confronto fra la dimensione autoriale del regista e il peso di una sceneggiatura commissionata. Quando un talento di una cinematografia nazionale minore si imbatte in Hollywood (o in un prodotto comunque più vicino ad una dimensione "mainstream"), c'è sempre il rischio che si perda, cioè che si conformi alle convenzioni del genere. Alfredson si è posto in mezzo al guado: da una parte è evidente la sua mimesi nel modello spionistico tradizionale, dall'altra non mancano, disseminate qua e là, tracce di personalità. Esempi si ritrovano, come detto, nella calma serafica con cui dirige gli attori, dispiega l'intreggio, definisce umori, ambienti ed atmosfere. Così come rimandi al suo atipico e laconico horror si rinvengono, fulmineamente, nelle scene violente (come nell'esecuzione di una spia, con lo schizzo di sangue che imbratta il muro) o surreali (l'orrida incursione di un pennuto in fiamme in un aula scolastica). Ma c'è di più. In questa trortuosa spy-story, Alfredson tiene fede a motto "Lasciami entrare" che dava il nome (nella traduzione italiana) al suo precedente film, capovolgendone però l'ottica "vampiristica". Se nel suo horror, era il giovane adolescente puro che accettava di inglobare nel suo corpo e nella sua anima la componente vampiresca, "lasciando entrare" la giovane amica strana e perversa, qui invece il percorso è inverso. Questa volta i vampiri sono i protagonisti e la loro forma di vampirismo è la peggiore e più subdola: il vampirismo dell'anima, del sentimento, della passione, della fiducia, dell'amicizia, della vita stessa, praticato dai Servizi Segreti, rappresentanti da Alfredson come la sintesi del Male auto-inferto e insensato. E quindi siamo noi, spettatori "umanisti" (o presunti tali), che vogliamo "entrare" nel loro guscio di grigiore, menzogne, sotterfugi, tradimenti, nomi in codice e doppi giochi. E lasciandoci entrare, ne scopriamo le fragilità, i desideri repressi, la sofferenza, la nostalgia per il passato, l'umanità negata. In tanta rigida obbedienza ad una causa assurda, Alfredson apre squarci di disperata malinconia (il ricordo del passato in casa di una ex-spia in pensione), tormentata passione (il rapporto fugace con una bella spia russa), gelida tenerezza (un "professore" e un suo alunno particolare), spavalda buffoneria (l'inno sovietico cantato alla festa), inguaribile rimpianto (la confessione di Smiley, in un primo piano struggente). Peccato che questi lampi siano troppo fugaci per scalfire la superficie di un'opera che non riesce a manifestare appieno le potenzialità del suo regista. Alfredon rimandato quindi, con la certezza che il meglio deve ancora venire...
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