Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film
E (ri)ecco a voi gli anni settanta, colti nel loro aspetto più gustosamente paranoico. La magistrale ed affidabilissima (più che altro attendibilissima, afflato romanzesco a prescindere) penna di un tipo non esattamente tranquillo come John le Carré, un intrigo internazionale immerso nel fulcro della guerra fredda, dominato dalle atmosfere livide e sospettose del grande conflitto della Storia recente: due ingredienti fondamentali che stanno all’origine di questo film d’altri tempi che con rara eleganza e passo flemmatico si avvicina alle tinte di un certo cinema americano (che proprio negli anni raccontati dal film era capace di perle minacciosamente ambigue – pensiamo, che so, a I tre giorni del condor) senza minimamente allontanarsi dal contesto palesemente britannico.
Impossibile racchiudere in poche righe la trama de La talpa, traduzione italiana dell’originale Tinker, Tailor, Soldier, Spy (certamente più suggestivo, ma per una volta va bene anche quello nostrano), e forse anche inutile: come ogni classico del suo genere, merita la visione innanzitutto per l’intreccio narrato (pregno anche di elementi autobiografici, dato che lo stesso le Carré fu fatto fuori dai servizi segreti per una vicenda analoga a quella che successivamente ha raccontato nel romanzo).
Non preoccupatevi se per buona parte della storia non capirete molto: ad una prima parte che ha il necessario compito di creare un’atmosfera (se volete anche lenta, ma indispensabilmente funzionale all’economia del film), densa di informazioni, sospetti, suggerimenti e quant’altro (nonché da silenzi irrequieti quanto malinconici, non di rado eccellenti: come dimenticare la noiosa e silente routine del protagonista appena dopo i titoli di testa?), ne segue un’altra in cui miracolosamente la certezza si fa verbo. Ma è proprio così?
La cosa forse più interessante ed appassionante del film risiede esattamente nella sua straripante ambiguità che inonda con incombente potenza ogni angolo dello schermo: anche quando la verità sembra venire a galla, a poco a poco, c’è sempre il fantasma del dubbio ad abitare la scena con sardonica angoscia. Freddo e severo, razionale e sospeso, retto da una sceneggiatura (della compianta Bridget O'Connor, a cui il film è dedicato, e di Peter Straughan) che agisce di sottrazione come la maggior parte del cast tecnico (eccezion fatta per certi costumi, per esempio di Benedict Cumberbatch, e per l’oscena capigliatura bionda di Tom Hardy, ma menzioni speciali alla plumbea fotografia di Hoyte Van Hoytema e alla precisa musica di Alberto Iglesisas), conta sulla regia di Thomas Alfredson che non rinuncia ad una splendida vena melodrammatica che attraversa le due ore con inesorabile compostezza e senza la benché minima concessione all’effetto fine a se stesso e ha il suo cuore pulsante nella memorabile perfomance di Gary Oldman, capo solitario di una compagnia infallibile (ottima Kathy Burke, pressoché unica donna in un mondo controllato da uomini stagnini, sarti, soldati e spie), un George Smiley essenziale e impenetrabile: mai un eccesso, mai un ammiccamento, mai un gigionismo.
Che abbia finalmente trovato il ruolo della vita? Sarebbe ingiusto non premiarlo con l’Oscar, a cui non è stato mai nominato ma che almeno in un’occasione (The contender) avrebbe meritato. Attenzione ad ogni sequenza, non abbiate la sciocca idea di perdervi qualche scena: gustatelo con la giusta dose di beffarda inquietudine, non credendo mai a nessuno vi assicuri la verità.
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