Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film
Non inganni il titolo La Talpa (lo stesso con cui fu pubblicato il libro in Italia), fuorviante perché semplicistico: Tinker, Taylor, Soldier, Spy (che deriva da una filastrocca inglese) non è affatto una banale spy story di caccia al traditore di “giallistica” strutturazione. E’, mirabilmente, un’analisi psicologico-comportamentale, fine ed erudita, del complesso, mutevole e arroccato universo “parallelo” dello spionaggio, ai tempi della Guerra Fredda, e dei suoi grigi, ambigui “abitanti”: agenti segreti, funzionari, impostori, galoppini, doppiogiochisti, cospiratori. Predatori e prede, manovratori e pedine, in un mondo in cui “niente è come sembra”, in cui tutti hanno un nome in codice, in cui tutti stanno dalla parte giusta. Eppure anch’essi persone, con famiglia/e, problemi, individualità. In questo senso, la minuziosa indagine sulla natura dell’uomo-spia trova il suo culmine ne La spia perfetta (A perfect spy, 1986), probabilmente il miglior lavoro di John le Carré, nel quale il soggetto del titolo, Magnus Pym, sembra essere l’evoluzione introspettiva di George Smiley.
Un compito arduo aspettava dunque Tomas Alfredson, già regista del meraviglioso Lasciami entrare, e cioè portare sullo schermo il romanzo del grande autore britannico. Impresa che può dirsi più che riuscita.
Alfredson rispetta appieno lo spirito, pulsante ed “esangue”, del libro, mettendo in atto una ricostruzione superba di ambienti e personaggi, di storie e conflitti, di anni che paiono una galassia remota, scarsamente ricordata, sovente alterata.
Una “densa”, plumbea rarefazione, avvolge e irrigidisce un’atmosfera carica di (r)umori sfocati, stagnanti, sottilmente oscillanti, a costituire una riflettente e “reale” percezione di pesantezza e immobilità, d’inesorabile trascinamento verso la penetrante, magistrale composizione della narrazione.
Il regista svedese si prende i suoi tempi, con ritmo lento quanto implacabilmente preciso e fluido, conducendoci nei meandrici turbinii che l’inchiesta di George Smiley scatena. Il suo è un racconto crudo, rigoroso, corposo, gelido, evita i consueti meccanismi del genere: non c’è poesia in una pallottola che all’improvviso fa esplodere la testa di una donna, come non ci sono eroismi né romanticismi.
L'azione è un attimo, la morte è un sospiro, i personaggi sono spettri. Solo elementi congelati in una dimensione che non esiste, e perciò “vera”.
Vera come l’interpretazione magnifica di un cast straordinario, quasi interamente british, al servizio di Sua Maestà (la Recitazione). Difficile dire, ammesso che ciò abbia senso, chi spicca. Volendo fare un nome, direi Benedict Cumberbatch, noto (finora) come lo Shelrock Holmes della serie della BBC: volto ed espressioni d’intensa e rara efficacia, ne sentiremo parlare ancora.
Si può con sicurezza affermare che fortunatamente un prodotto come questo non sia finito nelle mani rozze e unidirezionali di Hollywood: avremmo avuto un blockbuster tutto action, effetti speciali, pupe, sparatorie, ammazzamenti vari. Non che quello del puro intrattenimento sia il male assoluto, anzi è bene che ci sia. Ma non deve essere l’unica via. A meno che non si tratti di adattare un libro di Gèrard de Villiers avente Malko Linge, Sua Altezza Serenissima -SAS-, come protagonista! (ebbene, fino a non molti anni fa adoravo e divoravo i numeri della collana "Segretissimo" di Mondadori, che tuttora custodisco gelosamente. Quelli con SAS erano i miei preferiti).
Quello di Alfredson è un old style, asciutto, che non ammicca né si compiace; scava e approfondisce, erode svelando sensazioni e sentimenti, risvolti psicologici e drammi personali, pulsioni e imperfezioni.
Due film (quelli pervenuti alla normale distribuzione) sono pochi per dire se sia o meno un grande autore, ma la direzione è quella. Che gli dei del Cinema ce lo conservino così.
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