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La Talpa

Regia di Tomas Alfredson vedi scheda film

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L'autore

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La recensione su La Talpa

di (spopola) 1726792
8 stelle

Tessitura notevole, molto complessa ed intricata quella del libro, che Alfredson riesce a condensare in due ore di narrazione serrata che lasciano però davvero poco spazio al romanzesco e ancor meno all’azione, visto che il regista sceglie deliberatamente (e con successo) di concentrarsi tutto sulla dimensione umana della storia.

Con Tinker, Tailor, Soldier, Spy (questo il titolo originale della pellicola che riproduce esattamente quello del libro, ispirato da una filastrocca per bambini: Stagnaio, sarto, soldato… e come sempre,  molto più aderente al clima e allo svolgimento della storia, ma in questo caso non dobbiamo colpevolizzare la distribuzione nostrana poiché per l’Italia è stato ripreso “pari pari” quello più “commerciabile” ma ugualmente pertinente anche se meno suggestivo ed intrigante, che era già stato attribuito al romanzo quando fu pubblicato in Italia) Tomas Alfredson ci fornisce una nuova importante prova, che è anche la conferma evidente della straordinaria peculiarità del suo cinema:  quella di riuscire ad “attraversare” i generi rispettandoli nella sostanza, ma “dribblandoli” temerariamente, per “rinnovarli” e rivificarli nella forma così profondamente, da renderli molto più inquieti e “attuali”, carichi cioè di una visione decisamente personale delle cose che li fa lievitare enormemente e li trasporta in un’altra sfera, quella delle “percezioni emozionali”, trasformandoli così in preziosissimi oggetti cinematografici (opere che Cristina Paternò ha definito giustamente “per palati fini”) che – azzardo – il tempo potrebbe trasformare in veri e propri “cult”.
Era già riuscito magnificamente nell’impresa con il filone vampiresco (il sorprendente Lasciami entrare - che per la verità è qualcosa di più di un semplice film sui vampiri - che lo aveva rivelato con prepotenza qualche stagione fa) e ce ne dà una nuova dimostrazione adesso con la sua entrata a gamba tesa dentro il genere spesso usurato delle spy story. In entrambi i casi, alla base della rilettura in immagini ci sono due romanzi ugualmente interessanti e non del tutto conformi (per la precedente prova sui “succiasangue”, il romanzo di John Ajvide Lindqvist; per quella approdata al Lido nell’ultima Mostra, e da me vista in anteprima proprio in questi giorni, una delle migliori cose fra le tante uscite dalla creativa penna di  John Le Carré).
Dimentichiamoci allora davvero di James Bond e più o meno di tutto quello che il settore ha prodotto (anche di egregio) fino ad oggi, perchè quello realizzato da Alfredson si conferma a tutti gli effetti e a pieno titolo soprattutto come un film d’autore, un prodotto insomma molto sofisticato e tutt’altro che banale che richiede (anzi “esige”) un impegno estremo di attenzione da parte degli spettatori che - se vogliono provare a gustarne fino in fondo i succhi ed il sapore - devono necessariamente avere la “pazienza” (si fa per dire) e soprattutto la costanza e l’intelligenza di calarsi dentro a questa complicatissima e intricatissima vicenda (non sarebbe una novità per il settore ovviamente) in cui forse non è possibile districare completamente il bandolo della matassa procedendo per semplici congetture e ipotesi razionali, ma solo se si ha il coraggio di lasciarsi andare all’intuizione e farsi trascinare dalla suggestione degli eventi, buttandocisi dentro a nostra volta anima e corpo seguendo e assecondando idiosincrasie tutte personali, e magari provando a identificarsi più direttamente in uno dei giocatori della storia (o meglio in quello principale), pedina anche lui di un disegno più grande - e in una certa misura anche perverso - che sta dietro a tutto l’impianto narrativo.
Il clima generale, potrebbe richiamare alla memoria un’altra opera ugualmente fuori dal coro delle convenzioni che parla anch’essa dell’ambiguità dei rapporti, di finzioni e inganni, del mutare delle percezioni, della imponderabilità sfuggente dell’animo umano insondabile e sconcertante (mi riferisco a Breach – L’infiltrato du Billy Ray) ma con Alfredson a mio avviso si vola ancora più in alto (nel senso che le “ambizioni” di scavo delle psicologie sono più elevate) e ci troviamo di conseguenza in un’altra dimensione anche geograficamente e storicamente parlando, che mantiene per altro un “antico” alone di fondo un po’ retrò ma solo in apparenza.
Non lasciatevi comunque impressionare dalle mie parole che alla fine potrebbero scoraggiare dalla visione soprattutto i cultori del genere che non amano incursioni un po’ destabilizzanti, perché questa storia ha invece una qualità profondamente umana e semplice che salta subito agli occhi dello spettatore (e che può “colpire al cuore”), esattamente quella dimensione “speciale” che si ritrova pienamente espressa anche nell’agente Smiley, il suo protagonista, un uomo che si trova implicato in una vicenda di tradimenti, amicizie e sospetti ormai lasciato praticamente solo a cercare di destreggiarsi nel groviglio, dopo che ha sacrificato tutta la vita al lavoro e con il pensiero bruciante rivolto costantemente all’”assenza” della moglie che non può avere accanto.
Ruolo a suo modo romantico (ma di un romanticismo davvero molto controllato e asciutto) che Gary Oldman onora magnificamente (a tratti capace solo con un gesto, uno sguardo, una pulsione, di illuminare una scena con accorati accenni di sofferto e malinconico lirismo), e non fa provare alcun rimpianto (il che non è davvero poca cosa) per il suo predecessore, che era stato il grande Alec Guinness nella serie televisiva altrettanto pregevole di molti anni fa (se non ricordo male, prodotta in Inghilterra) ispirata allo stesso personaggio. Già, perché Smiley è figura centrale in molta della produzione letteraria di Le Carré (il suo “eroe”, si potrebbe definire), e lo è dunque anche de La talpa forse il più famoso (insieme a La spia che venne dal freddo) fra i romanzi scritti dal prolifico autore, un tomo di ben 349 pagine pubblicato nel 1974 e diventato immediatamente un successo planetario, intriso com’è delle appassionanti atmosfere coinvolgenti e “sporche” della Guerra Fredda.
Tessitura notevole, molto complessa ed intricata quella del libro, che Alfredson riesce a condensare in due ore di narrazione serrata che lasciano però davvero poco spazio al romanzesco e ancor meno all’azione, visto che il regista sceglie deliberatamente di rinunciare al pathos “classico” del genere (o meglio decide di relegarlo decisamente in sottofondo) per concentrarsi tutto sulla dimensione umana della storia. E’ abbastanza aiutato in questo suo processo “selettivo”, dalla raffinata scrittura  del romanziere (dalla quale hanno per altro ricavato un’ottima sceneggiatura Peter Straughan e Bridget O’Connor): ricordo per inciso, che Le Carré è un uomo che conosce molto bene le cose di cui parla, e per questo probabilmente risultano così intrise di assoluta verità, visto che è stato lui stesso per lungo tempo impegnato nei servizi di Sua Maestà Britannica come agente dell’MI5 e dell’MI6. Il regista comunque ci mette anche molto del suo però, evitando prima di tutto e di proposito ogni spettacolarizzazione “avventurosa” per restituire invece con un accorto dosaggio dei mezzi, il clima dimesso, quasi depressivo, in cui si muovevano (e forse si muovono ancora), queste spie “vere”, tutt’altro che dei seducenti ed elegantissimi agenti segreti, e lontano anni luce dal “fiabesco” roboante mondo dell’azione rocambolesca fatta di  vorticosi inseguimenti su luccicanti auto da corsa, donne fatali e improbabili duelli ad alta quota. Molto accurata anche la descrizione di  personaggi conflittuali e realisticamente “fallibili”,  funzionari un po’scialbi e routinieri, intenti a parlare spesso del più e del meno, o magari a prendersi il tè nella pausa pomeridiana dal lavoro o a porsi domande quasi sempre senza risposta, esplorati e vivisezionati attraverso le afflizioni, le indecisioni, le titubanze e i sospetti del vivere giornaliero un po’ burocraticizzato, ma alle prese con problemi così terribili, che se non risolti, potrebbero finire davvero per  sconvolgere gli equilibri del mondo.
Solitudine e disillusione, memoria del passato, spaesamento, senso di perdita e grigiore del quotidiano, sono infatti gli ingredienti privilegiati di una vicenda che si può anche riassumere nelle poche righe che seguono, per altro senza correre il rischio di svelare un qualcosa di troppo dei complicati meccanismi anche politici che ci stanno dietro: da molto tempo c’è un infiltrato sovietico nel Circus, il servizio segreto guidato da Controllo (un altrettanto eccellente John Hurt). Questo doppiogiochista che sta creando grossi problemi al bureau, non può essere dunque che uno della squadra, e si annida certamente “dentro” la struttura, nel cuore dell’organizzazione, della quale oltre all’eccellente Smiley di Oldman a cui ho già accennato, fanno parte anche il tutto d’un pezzo Roy (Ciaran Hinds), l’ambiziosissimo Percy (Toby Jones), il raffinato Bill (l’ottimo Colin Firth), e lo zelante, “servizievole” Toby  (David Dencik).
Sarà proprio Smiley, in precedenza allontanato dai servizi a causa di una missione in Ungheria andata storta, ad essere richiamato in carica da un membro del governo quale elemento momentaneamente esterno alla struttura, e quindi insospettabile, con il compito di individuare,  restando ovviamente il più possibile fuori dai ranghi e aiutato nell’indagine soltanto dal giovane Peter (Benedict Cumberbatch), chi è esattamente la mela marcia “infiltrata” nel sistema.
Nient’altro da aggiungere ovviamente per non togliere il gusto della visione, che sarebbe in questo caso più che mai un reato di lesa maestà, e non solo perché la suspence legata alla storia gialla resta invariata per chi è comunque interessato soprattutto alle emozioni un tantino adrenaliniche che anche qui sono rispettate con rigore, pur se espresse più in sordina, ma anche per tutte le altre implicazioni  che riguardano i rapporti interpersonali fra i personaggi coinvolti a vario titolo nella vicenda e con i quali siamo soprattutto chiamati a confrontarci e a fare i conti.
Nostalgico come tutti i film di spionaggio girati dopo la caduta del Muro di Berlino (che fa in ogni caso da spartiacque fra due mondi e due concezioni delle cose), ha un andamento ellittico e misterioso decisamente in controtendenza, freddo e a tratti quasi scostante, ma pieno di un fascino imperscrutabile che avvolge  e trascina con le sue introspezioni psicologiche che scavano dentro i grovigli delle anime: basta lasciarsi trasportare dalle immagini e dai ritmi della messa in scena, che sono certamente più languidi e lenti della consuetudine ma ugualmente pregnanti e fascinosi, e il gioco è fatto (e del resto abbiamo già sperimentato tutto questo con la sua precedente prova e conosciamo bene quali emozioni può produrre). Anche qui dunque grande attenzione agli ambienti, con un utilizzo ben programmato di frequenti carrellate avvolgenti ed esplorative, quasi impercettibili nel movimento molto rallentato della cinepresa,  mischiate a zoommate  altrettanto sorprendenti.
Lo potremmo definire in fondo allora un poderoso melodramma che scandisce e dilata quasi esasperandoli, fatti e rapporti legati allo squallido mondo dello spionaggio, concentrandosi soprattutto sulle “relazioni” e i retroscena, con una insolita procedura in sottrazione, che non gi impedisce però di risultare un film ugualmente appassionante, ansiogeno e trascinante, certamente un po’ glaciale e disincantato, che Stefano Falotico dopo la sua visione veneziana di settembre, ha definito come ‘un'aritmica finestra sul cortile, a piangersi negli occhi malinconici e "malconci" d'una notte “bianca”, di case immerse nella penombra, anche nei mattini più lievi, o nelle “timidezze” d'una Luna guardona che strepita nei tuoi respiri” e dove, dopo aver individuato tutti i possibili “sospettabili” fra bugiardi e imbroglioni di ogni specie, per Smiley sarà in ogni caso  estremamente difficile (ri)trovare un equilibrio decente fra vecchie rivalità e antiche storie di amicizia, poiché la riuscita della sua missione, comporterà per lui davvero troppe lacerazioni e un  prezzo molto alto da pagare.

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