Regia di Marc Evans vedi scheda film
Questo film è passato quasi del tutto inosservato. Eppure è stato il candidato britannico al premio Oscar 2012 per il migliore film straniero. Sarà che il suo discorso sottovoce è rimasto inudibile, in un mondo in cui il movimento è sempre accompagnato dal rumore. Questo storia, invece, parla dei viaggi che si compiono soprattutto con l’anima, e non fanno chiasso né sollevano polemiche, perché sono migrazioni individuali, senza altro scopo che quello di ritrovare quella parte di sé che è andata perduta. Le vicende incrociate di due coppie - una formata dall’anziana Cerys e dal suo giovane vicino Alejandro, e l’altra da Gwen, un’attrice di teatro e dal suo compagno, Rhys, di professione fotografo – mostrano come partire sia quasi sempre un sogno realizzabile, anche quando le circostanze della vita sembrano remare contro. Impossibile è, invece, ritornare indietro, e se si resta, è solo per perdersi in una terra sconosciuta, cercando un luogo che non esiste, eppure fa sognare, che si chiami Nant Briallu o Cholila. Una fattoria nel Galles, o un villaggio di montagna in Patagonia. Dove viveva la madre di Cerys, prima che, nel 1927, si trasferisse in Argentina; o dove la gallese Gwen, il cui rapporto sentimentale è entrato in crisi, immagina di poter incontrare un nuovo amore. Entrambe seguono un richiamo indefinito, senza forma né ragione, che vive solo di immagini irreali. Quelle di una vecchia foto di famiglia, sbiadita dal tempo, o di una fugace suggestione fantastica, prodotta da una notte di follia. Cerys e Gwen sono straniere in un Paese lontano dalla loro patria, al quale, tuttavia, si sentono di appartenere; la prima, in virtù delle proprie origini, la seconda, per effetto di una improvvisa folgorazione. Intanto, intorno a loro, regna un vuoto in cui si continua a smarrire l'orientamento, i mezzi di trasporto vengono meno, le direzioni si moltiplicano, i percorsi vengono deviati e gli obiettivi si confondono. In Patagonia, Gwen doveva solo accompagnare Rhys in una missione di lavoro. In Galles, Cerys non avrebbe nemmeno dovuto arrivare, perché la meta inizialmente programmata era una clinica di Buenos Aires, dove i medici l’aspettavano per un’operazione agli occhi. Le due donne finiranno entrambe per inseguire qualcosa di molto diverso, molto più labile ed illusorio, eppure infinitamente più importante di una vacanza a caccia di paesaggi o di una cura per migliorare la vista. Lasciare che il traguardo raggiungibile sfumi, per sprofondare lo sguardo nella vastità, verso un orizzonte lontano e sconfinato, equivale ad abbandonarsi all’avventura vera, che non ammette piani né regole di alcun genere. È l’espressione di una passione indefinita, applicata all’incertezza, come sembra essere lo sviluppo di questo racconto: un inquieto amalgama di eventi sparsi ed incompiuti, a base di un’inconcludenza che pure viene assaporata istante per istante. È la condizione di chi, come le due protagoniste, è animato da un intenso desiderio, assoluto e incontrastabile, eppure non sa dove andare. È un vagabondare ricco di determinazione, eppure dai contorni sfuggenti, un percorso zigzagante ma mai offuscato dal dubbio, e compiuto nella ferma consapevolezza che anche sbagliare strada significa, comunque, portarsi avanti nel cammino. Patagonia è un’opera semplice, soffusa, semplice come la cecità che si lascia trascinare dall’istinto o dall’intuito, senza porsi troppe domande; la cronaca diaristica di una ricerca che non ha metodo, ma solo volontà, e, soprattutto, è dominata da un potente, irrazionale senso dell’altrove.
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