Regia di Andrew Niccol vedi scheda film
Orologio! dio sinistro, spaventoso, impassibile!
il cui dito ci minaccia e ci dice: Ricordati!
come dentro un bersaglio, nel tuo cuore atterrito
stanno per infiggersi i vibranti Dolori (...)
Son sabbia i minuti, spensierato mortale,
da non lasciare scorrere senza cavarne oro!
[da "L'horloge" - Charles Baudelaire]
Che pasticcio, Andrew Niccol!
Stempera una già di per sé non originalissima riflessione sul Tempo (e sui tempi) annacquandola in un banal(izzant)e flusso narrativo e formale singhiozzante, posticcio, estemporaneo.
Che la sceneggiatura porti la sua firma ha dell’incredibile, essendo il principale (ma non l’unico) difetto di In Time. Le incongruenze di scrittura - con assurde e inconcepibili svolte (per citarne una, tra le tante: il rapimento alla banca del tempo, con i nostri che sbucano da chissà dove con un mezzo pesante presso chissà dove e in un baleno rubano la preziosa “merce” che è lì subito dietro l’entrata) - dominano e infestano una trama di cui è già faticoso accettare l’assunto: la genetica che vince sulla Natura, l’età (quella apparente) che si ferma a venticinque anni e un orologio digitale “tatuato” sull’avambraccio.
Niccol sceglie di non spiegare nulla sulle origini di tale condizione (il che, di per sé, comunque, non è necessariamente un male), ma incespica clamorosamente nel presentare una stori(ell)a che non sta in piedi, che zoppica in più occasioni non riuscendo a mettere a fuoco le tematiche preposte, incappando in una serie di abbagli che denotano poca lucidità e forse voglia.
Il regista di Gattaca fallisce inoltre nel coniugare i classici meccanismi dell’action-thriller con i contenuti drammatici di certe considerazioni (la spasmodica ricerca della formula dell’immortalità e della giovinezza; le lotte di classe; il potere). Se i primi sono malamente realizzati e quindi privi di efficacia (cosa di non poco conto) poiché gravati da manifesti difetti narrativi (e le scene d’azione non sono granché), la rilevanza delle seconde, oltre che esserne conseguentemente sminuita, è affidata a battute pronunciate con la solennità di sentenze dogmatiche che, invece, tutt’al più, avrebbero la loro destinazione ideale come frasi da biscotto delle fortuna.
La stessa rappresentazione di questa realtà distopica, divisa in universi ghettizzati (coattivamente, in quanto poveri) e autoghettizzati (i quartieri dei ricchi, chiusi nella loro immobilità esistenziale), chiamati “zone orarie”, è mediocre, imprecisa, scialba, anche già solo a guardare, sbadatamente, la superficie. E sì che le potenzialità c’erano, almeno si poteva avere l’accortezza di rifarsi al passato.
Ciò che poi “appesantisce” la leggerezza del racconto è la (mancata) definizione dei personaggi, la loro descrizione è approssimativa ed elaborata sbrigativamente, senza mai soffermarsi, in maniera adeguata e decis(iv)a, sulle motivazioni che li spingono a compiere determinate azioni e sulle loro (re)azioni. Semplicemente, stanno lì, un senso a ciò che fanno o a ciò che sono non c’è. Inutile cercare.
Se pensiamo a come era approfondita e ricercata la psicologia del protagonista di Gattaca, Vincent Freeman, qui siamo distanti anni luce: Will Salas (Timberlake) è un pupazzo monodimensionale e insignificante, che agisce (ed esiste) solo perché la storia deve andare avanti. Presenza impalpabile e futile, a tratti spaccona (l’azzardo, ridicolo, riuscito al tavolo da poker ai danni del riccone) e mai tormentata (la madre che gli muore tra le braccia per aver finito il tempo).
Certo non ha giovato la scelta di Justin Timberlake, “artista” polivalente osannato e ricercato. Peccato che non solo regga la scena, nemmeno per un attimo, ma non dimostra neppure un briciolo di espressività. In parole povere, bruscamente: non sa recitare.
Ma, e qui si raggiunge il top del flop, persino il già “cantante” degli N’Sync fa quasi bella figura accanto alla protagonista femminile, Amanda Seyfried: una visione molesta, ogni volta che il suo faccione - occhioni liquidi e vacui e capelli a caschetto a dir poco orrendi - appare sullo schermo, si prova un’irritazione così forte che travalica i limiti della sopportazione psicofisica. Una tortura. Come la sua “interpretazione”, insulsa e goffa. Si limita a sbattere le ciglia come in un cartone animato e a stare in posa. Sicuramente durante la lavorazione si saranno accorti della sua palese incapacità, cercando di mascherarla e distrarre lo spettatore fasciandola in abiti corti e mettendole tacchi vertiginosi, sui quali però sgambetta e corre come nulla fosse. Non ci siamo distratti, purtroppo.
Tirando le somme, la coppia Timberlake-Seyfried è una delle peggiori che si siano mai viste sullo schermo.
E pensare che nel cast c’è anche Olivia Wilde, bellezza mozzafiato e presenza che non può passare inosservata, assurdamente sprecata: nel film muore dopo pochi minuti. Il suo ruolo è quello della madre cinquantenne di Timberlake. Altro che complesso di Edipo …
Nella parte di un implacabile “custode del tempo”, per quanto scritto male, Cillian Murphy dà, ancora una volta, prova della sua bravura. Su questo non avevamo nessun dubbio.
Dubbi invece che non possono non concentrarsi su Niccol e la sua malriuscita “creatura”. La speranza è che si tratti solo di un passo falso, c’è bisogno dello sguardo e della visione che aveva mostrato fino ad ora.
Prima di questo In Time, film scadente, che, come si suol dire, non resterà nel tempo.
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