Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Il ricordo nasce dalla muffa del passato, ma poi sboccia come il biancospino. Ha un odore forte e selvatico, che si può scambiare per un puzzo di stantio; ma arriva sempre il momento in cui la faticosa rievocazione, dopo aver mosso i primi passi a tastoni nella nebbia della memoria, spicca finalmente il volo, e fa rivivere l’originale intensità delle emozioni. È la storia di questo film, che nasce dalle parole stentate di un componimento scolastico, disegnando i personaggi dell’infanzia come le goffe figurine di un sogno. E poi cresce, lasciando che una fresca ventata di sensazioni autentiche e mature dissipi il velo della trasfigurazione grottesca, per spalancare la vista sulla vita vera, quella che è spietatamente presa a schiaffi dal dolore, dalla rabbia e dalla passione. Il ritmo del racconto assomiglia al crescendo di una ballata romantica, in cui l’amore scopre la luce attraversando a piedi nudi il buio dell’errore, della solitudine, della paura. La tradizione contadina, perpetuata dalla miseria e dall’ignoranza, è una sterile ritualità basata sulla contrattazione in natura; ciò che produce è soltanto un abbozzo di esistenza, destinato ad inciampare negli ostacoli della sventura che, da che mondo è mondo, è il fardello assegnato alla povera gente. Un matrimonio d’amore, tra due spiriti semplici, deve combattere un’epica battaglia per farsi strada in un intrico di convenzioni sociali e primitivi vizi, tramandati di generazione in generazione. Carlino Viggetti ha ereditato dal padre la condizione di mezzadro e l’abitudine di correre dietro alle donne. È un buono a nulla analfabeta, che un giorno, mentre sono in corso le trattative per le sue nozze con una delle figlie del proprietario delle terre, viene folgorato da Francesca, una ragazza ingenua, che non sa parlare e non conosce le buone maniere. Il patto stipulato tra le due famiglie va all’aria, e la partenza per quei due giovani sprovveduti, ma a loro modo determinati, è tutta in salita. Lei è devota e sognatrice, lui è immaturo ed irruento; il loro rapporto è circondato dalla diffidenza di tutti, ed è osteggiato, oltre che dall’incomprensione generale, da una buona dose di sfortuna. La commedia, nelle mani di Pupi Avati, è la nostalgica celebrazione di una mediocrità che il passare degli anni ha tramutato in una colorita elegia popolare. Attraverso il filtro del tempo, ogni cosa appare buona e giusta, perché è resa tale dalla consapevolezza del lieto fine: che, per una storia come questa, risiede nel semplice fatto di aver prodotto una discendenza, ossia qualcuno in grado di raccontarla in prima persona, con sincera gioia ed una malcelata punta d’orgoglio. Il cuore grande delle ragazze ci fa scoprire ancora una volta, in un’epoca che ormai pensa a tutt’altro, il gusto di rispolverare, con la dovuta pazienza, l’anacronismo finito nel dimenticatoio, fino a restituirgli il suo antico splendore. Il presente deve rieducare lo sguardo, per poterlo vedere, e l’obiettivo Pupi Avati lo accompagna dolcemente in questa operazione, aggiustando gradualmente il fuoco. Le ombre del dormiveglia diventano immagini nitide, se ci stropicciamo gli occhi. E così anche le rozze forme dell’incubo, dello stereotipo e della caricatura possono riempirsi poco a poco di un fresco alito vitale, fino ad assumere i morbidi contorni di una intramontabile bellezza.
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