Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Non è bastata una sola visione, ce ne sono volute due, perchè il sottoscritto si arrendesse di fronte alla grandezza di questo film. E se dopo una prima visione coltivavo ancora perplessità e indecisioni, tutto ciò è naturale, perchè rientra nello spirito del rapporto "problematico" che si è delineato negli ultimi anni tra me e il cinema di Pupi Avati. E' una storia che comincia da molto lontano, da un giorno a cavallo tra la fine dei 60 e l'inizio dei 70, quando il sottoscritto ebbe modo di leggere su un vecchissimo numero del settimanale "Ciao 2001", un articolo firmato da Luigi Cozzi (giornalista che in seguito si diede alla regìa nonchè nome piuttosto celebre tra gli appassionati italiani di fanta-cinema e di b-movies in generale). Oggetto di quello scritto era un film inquietante (che io poi non ebbi mai occasione di vedere e che ancor oggi mi risulta sia pressochè irreperibile) dal titolo "Balsamus l'uomo di Satana", opera prima di un giovane bolognese, tale Pupi Avati. Da quel giorno è passata praticamente una vita, e nel frattempo il sig. Avati ha sfornato una montagna di pellicole (36!!), in un percorso professionale ricchissimo. Avati è dunque partito dall'horror, sua vecchia passione cinefila, ma in realtà le sue opere in questo campo si limitano (se escludiamo quei primi "furori giovanili") ad un solo titolo che però è diventato un supercult per ogni appassionato ("La casa dalle finestre che ridono" del 1976), anche se poi nel 2007 c'è stato un brillante ritorno di fiamma col non disprezzabile "Il nascondiglio". E poi c'è l'Avati dominante, quello reso popolare da uno stile tra il nostalgico e il malinconico, che negli ultimi anni si è fatto sempre più crepuscolare, e al quale è decisamente improntato questo pregevole "Il cuore grande delle ragazze". Accennavo prima ad un tortuoso rapporto tra me il cineasta emiliano. Fermo restando il mio apprezzamento per le qualità tecniche del Maestro, devo infatti individuare nella sua produzione, a fronte di uno stile riconoscibile e consolidato che ne esalta le inclinazioni "artigiane", un retrogusto ricorrente che contamina spesso il suo sguardo sull'umanità. Mi riferisco ad un'impronta cattolica, che ove si ecceda nell'ottica di una certa visione parrocchiale-nostalgica, può generare qualche fastidiosa tendenza ad incorrere nel rischio di una vaga forma di clichè. Diciamo che lo sguardo di Avati è quello di un signore borghese, impregnato di una cultura da cinema di genere, però tenendo presente che egli non si muove in tali territori con l'animo scapestrato del laico, ma bensì mosso da una sorta di indole "crepuscolare-parrocchiale". Ma si tratta solo di speculazioni del sottoscritto che non inficiano quella che è la mia valutazione finale dell'insieme della sterminata produzione del Maestro. Perchè c'è una cosa inconfutabile che occorre scrivere a chiare lettere: Avati è regista assolutamente personale, dotato di una visione e di uno stile, entrambi clamorosamente riconoscibili, che nessun altro è in grado di imitare. Posto fine a questa estenuante premessa di cui mi scuso, apro un'altra breve parentesi per dire che il mio giudizio critico sulle ultime produzioni del regista non è affatto uniforme. Ci sono film che ho trovato scarsi e deludenti ("Il figlio più piccolo") e altri piuttosto discutibili ("Gli amici del bar Margherita"), a fronte di altri meravigliosamente struggenti ("Una sconfinata giovinezza" e "Il papà di Giovanna"). Ciò detto, voglio affermare subito che quest'ultimo lavoro uscito proprio in questi giorni, mi ha entusiasmato e mi ha riconciliato alla grande con un autore reduce dal passo falso del precedente film che vedeva Christian De Sica come protagonista. Un film che mi ha inebriato, e di cui ho goduto come un bambino che, chiudendo gli occhi, ha percepito odori, sapori e colori della civiltà contadina dell'Appennino emiliano (anche se qui trasferito nelle Marche, senza sostanziali modifiche): una realtà, questa, che solo Avati (assieme all'ottimo Giorgio Diritti) sa raccontare da autentico maestro. E io mi sono infatti completamente abbandonato alla narrazione di quell'universo, un percorso emozionante in quei luoghi e in quei tempi (prima metà degli anni 30) che attacca subito da quella prima inquadratura che ci mostra Andrea Roncato (il mezzadro) circondato dal suo "harem" femminile; un viaggio che ti prende il cuore se lo porta via, un racconto che diverte e commuove. Rinuncio in partenza a raccontare la trama del film (ne accennerò in sintesi) sia perchè esso è popolato da troppi personaggi e vi accadono davvero un sacco di cose, e inoltre non è facile rendere, attraverso la parola scritta, una duplice lettura dell'opera: da una parte l'esplorazione di un mondo contadino arcaico coi suoi lati dolorosi e anche quelli piacevoli, osservati sempre con una vena ironica impagabile, ma nel contempo sviluppando una travagliata quanto struggente storia d'amore. Si parla di un giovane dongiovanni che, dopo tante avventure, si innamora perdutamente di una bella ragazza romana, amore a lungo contrastato che però, quando finalmente verrà suggellato dal matrimonio, troverà uno sbocco imprevisto e doloroso che ovviamente non rivelerò. Ma la forza del film non sta tanto in questa trama, tutto sommato tradizionale, quanto piuttosto nei dettagli (infiniti e tutti godibilissimi, tipo gli irresistibili incontri del protagonista con due impagabili zitelle, oppure la scena esilarante delle due ragazze che fanno pipì davanti ad un gruppo di musicisti non vedenti mentre costoro stanno pranzando). E' un film prezioso anche perchè consegna al pubblico tracce tangibili del suo sfondo rurale, pare quasi di respirare certe brume del mattino o di calpestare quelle strade fangose di campagna. Come di consueto, Avati è un ottimo direttore d'attori e peraltro -ma questo lo sappiamo ormai molto bene- egli non sa rinunciare all'utilizzo di voci e volti ricorrenti che sono per lui degli amabili feticci, a partire dal solito Gianni Cavina, qui in una delle sue interpretazioni più godibili. Poi da segnalare la voce narrante fuori campo (utilizzata in maniera ottimale) di Alessandro Haber. I due protagonisti sono perfettamente in parte: il debuttante Cesare Cremonini (brillante esordio, se si esclude un filmetto irrilevante di qualche anno fa) e la splendida Micaela Ramazzotti (una conferma del suo talento in crescita). Sorprendente poi la partecipazione di Andrea Roncato, di certo attore non esaltante, ma qui sfruttato da Avati in modo strepitoso. E infine il consueto stuolo di validi caratteristi, tra cui primeggia Manuela Morabito (ennesimo feticcio avatiano), attrice che apprezzo sempre di più ad ogni sua nuova partecipazione. Un cenno doveroso alle musiche, davvero funzionali ed evocative, composte da Lucio Dalla. Concludendo. Che film è questo? Lo dico in sei parole. Grande Cinema Popolare. Grande Cinema d'Autore.
Voto: 9
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