Regia di Emilio Estevez vedi scheda film
L’idea base di questo film è formidabile: un padre che vive in California viene avvertito che il figlio è morto in un incidente durante il percorso del “Camino de Santiago”. Decide allora di proseguire e completare, per onorarne la memoria e rispettarne la volontà, di percorrere egli stesso (ormai settantenne) il cammino (900 kilometri circa).
Emilio Estevez altri non è che il figlio di Martin Sheen (di origine spagnola)ed egli stesso interpreta il ruolo del figlio del medico oftalmologo interpretato dal padre.
Il cinema americano non è uso a produrre film di questo tipo.
I film di tema religioso son sempre stati considerati molto rischiosi per la particolare situazione di “melting pot” della nazione.
Inoltre, si tratta di un genere che può degenerare facilmente in drammoni strappalacrime, spesso intrisi di sentimentalismo a buon mercato.
Inoltre, attualmente è di moda il politically o ideologically correct, per cui la tendenza è quella di relativizzare un po’ tutto ciò che sa di religioso e politico.
Un altro pericolo molto grave, per noi europei, è l’approccio che gli americani hanno nei confronti della Chiesa cattolica. Basterebbe citare Dan Brown e lo scempio dei temi e delle opere religiose compiuto con i suoi libri e che Hollywood, sempre pronta a fiutare l’affare, ha completato con il cinema. Nei casi migliori, mancano la profondità, la sincerità e l’onestà. In quelli peggiori, maglio lasciar perdere.
La cosa che più fa arrabbiare sono il piglio goliardico e l’impudenza con cui vengono trattati storia, spiritualità e valori comuni. Si prendono volentieri a calci pur di fare business.
Questa lunga premessa mi sembra necessaria prima di affrontare criticamente il film.
Ora, qual è la tentazione maggiore per un regista americano che si appresta a girare un film in Spagna? E’ quella, ma non solo, secondo me, di cedere agli stereotipi, ma anche di modificare la realtà per renderla più appetibile, più “potabile” ai palati delle sale americane.
Nel caso in questione, avuto sentore che una troupe americana si apprestava a girare un film dalle loro parti, cittadini ed istituzioni spagnoli hanno esercitato forti pressioni perché si realizzasse un’opera seria e documentata. Tracce sono rilevabili in alcune scene (tra cui quella che vede un ristoratore basco avanzare una suggestiva variante della storia che fa da sfondo alla celeberrima Chanson de Roland). Nonostante questo, sono evidenti alcune “libertà” ed imprecisioni, come il poco credibile episodio del furto dello zaino e della successiva restituzione, con gitani che parlano inglese e danno lezioni (con il massimo rispetto, sia chiaro) di nobiltà e di hidalguia, oppure dell’esibizione del “botafumeiro” che avviene in realtà solo in occasione delle grandi festività o nell’Anno Santo.
IL VIAGGIO
Perché ci si mette in viaggio per Santiago? Che cos’è Santiago? Cosa rappresenta? Estevez affronta in modo realistico l’argomento. La gente va a Santiago per i motivi più disparati. Ne fanno fede i quattro protagonisti del viaggio. La sensibilità attuale è tale per cui il cammino di Santiago non è più ormai esclusivamente un percorso spirituale e religioso, ma un’occasione come un’altra per trovare nuovi stimoli, fare nuove esperienze, perdere qualche chilo di troppo.
Come si sa, il viaggio è occasione di ripensamento, di riflessione su se stessi, preannuncio di una modificazione interna.
A quanto pare, nessuno dei protagonisti è credente. E sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare che alla fine del viaggio essi abbiano cambiato opinione. Qualcosa però è successo. Qualcosa li ha cambiati. Un percorso che dura settimane, lungo stradine e sentieri a volte percorribili con difficoltà, soggetti alle intemperie, costretti a dormire in alloggi scomodi, a cibarsi alla bell’è meglio, non può non influire su noi stessi.
Come si sa, il viaggio acquista valore in sé, non tanto per la meta finale. Ce lo ricorda Antonio Machado con i suoi versi: “Caminante, no hay camino, se hace camino al andar”. E’ il cammino stesso il senso della nostra vita quel “todo pasa y todo queda”. Non c’è una meta vera e propria, non c’è un destino segnato, siamo noi che ce lo forgiamo, giorno dopo giorno.
Questi quattro pellegrini, ma sarebbe meglio definirli dei camminatori, in effetti stanno, giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, hostal dopo hostal, modificando loro stessi.
Raggiunta Santiago, non si fermano. Il viaggio è stato così pregnante che, malgrado le loro dichiarazioni precedenti, seguiranno il loro cammino fino alla fine della terraferma, a cospetto dell’oceano e di una chiesa costruita quasi a ridosso della costa. Oltre, non è più possibile andare. Si può solo ritornare.
C’è chi trova, come il protagonista, il valore catartico del viaggio e continua a camminare in mondi diversi. Gli altri hanno forse trovato delle risposte che fino ad allora andavano cercando inutilmente.
Il cammino di Santiago è però, nonostante tutto, un cammino essenzialmente spirituale. In effetti, ogni modifica interiore, ogni risposta interiore trovata, devono avere radici spirituali. Contemplare, dal Monte del Gozo, accanto alle statue straordinarie di due pellegrini che indicano la meta, la città di Santiago, non può non muovere qualcosa dentro. Un pellegrino vero ha scritto:”He aprendido que llegar a una meta es apenas el inicio de un camino mucho mas largo”. Frase che compendia in modo superbo un percorso interiore.
E allora il cammino di Santiago altro non è che il percorso che un’umanità intera compie giorno dopo giorno, alla ricerca di risposte, alla ricerca di se stessi.
IL FILM
Estevez riesce solo a tratti a comunicare quello che sicuramente sente dentro. Io credo nell’onestà intellettuale e nelle ragioni profonde che lo hanno spinto a dirigere il film.
Il problema è che non riesce a trasmettere l’intensità del proprio sentire, la profondità dei propri sentimenti.
Troppo spesso questa ricerca spirituale si diluisce in rivoli dispersivi, in dialoghi banali, in episodi inutili (come la scena della sbronza). Solo in certi momenti il regista riesce ad emergere dalla mediocrità, come l’arrivo al Monte del Gozo o l’ingresso dal Portico de la Gloria nella cattedrale giacobea. Qui Estevez riesce a convincere e a commuovere.
Un altro merito del regista è quello di non essere caduto (pur se non è riuscito del tutto a cedere alla tentazione di raffigurarli) nei soliti cliché sulla Spagna, sui toreri e sul flamenco).
Evidentemente, le raccomandazioni dei locali e la buona disposizione d’animo del regista hanno fatto il miracolo (frase che si addice più che mai al caso in questione).
Per finire, bisognerebbe accettare il film per quello che è e non per quello che poteva essere. Estevez non è Welles, non è Bunuel e nemmeno Kubrick. Forse gli interessava solo fare un film con sensibilità e motivazioni proprie del pubblico americano, inserendo tra una battuta e un’altra, tra una bevuta e una fumata, frammenti di un universo spirituale, storico e culturale immenso che egli ha percepito e che avrebbe voluto condividere.
Noi europei facciamo fatica solo ad immaginare un film sul Cammino di Santiago, tanto ci sentiamo piccoli e inadeguati. Siamo troppo coinvolti. Siamo troppo avvolti. Solo chi sta fuori da una cupola riesce a dipingerla per com’è. Ma… non riesce a vederla dal di dentro, questo è il problema.
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