Regia di Annette K. Olesen vedi scheda film
Il penultimo film aderente al manifesto Dogma 95 è una riflessione sulla relatività della colpevolezza: una nozione che è sempre riferita ad un sistema di norme e di valori, e come tale è ancorata ai ruoli ricoperti nella società ed alle particolari strutture in cui si trovano inseriti gli individui. Quando il codice convenzionale si impone sulla valutazione da parte della coscienza, ciò che è proibito si identifica erroneamente con ciò che è sbagliato, ed il senso di inadeguatezza diviene un’inevitabile conseguenza di questo drammatico equivoco. Anna, pastore protestante presso un carcere femminile, è, in quel luogo di penitenza, il tramite ufficiale tra la Terra e il Cielo: tuttavia, il sostegno che può portare è una generica formula scritta, che può superficialmente consolare, però non è in grado di risolvere le molteplici angosce personali di coloro che la circondano. Kate, la detenuta infanticida, eppure in grado di operare miracoli, è la figura che si sottrae alla classica distinzione tra il bene e il male, tra il paradiso e l’inferno, tra la dannazione e la santità: in lei si trovano le risposte misteriose, che sono probabilmente quelle autentiche, perché l’inconoscibilità delle verità ultime è l’unica condizione che si addica alla limitatezza della natura umana. Questa donna è la contraddizione vivente che, assommando in sé gli opposti termini dei fondamentali dilemmi, ne dimostra il carattere illusorio, derivante da un modo arbitrario di tracciare le linee di demarcazione che delimitano le nostre categorie di giudizio. La sua relazione amorosa con un agente di custodia, vietata dal regolamento carcerario, è un ulteriore elemento di rottura, una fonte di crisi che pone in luce le crepe dei consueti sistemi di riferimento morale. Questi ultimi fanno parte della teoria, che si propone di mettere ordine in maniera astratta, e a priori, nelle vicende umane, ma si rivela poi inadatta a far fronte agli intricati casi della vita. Ciò che capiterà alla stessa Anna, poco dopo la sua assunzione presso la casa circondariale, è un esempio lampante dell’imprevedibilità dell’esistenza, che spesso ci costringe a decidere nell’assenza di certezze: una situazione che presenta il concetto di responsabilità in tutta la sua complessità, poiché dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, come qualsiasi scelta sia destinata a violare qualche legge, terrena o divina, e a macchiare quindi la nostra innocenza. Crimini - questo è il titolo del film - sono dunque, in varia misura, molte delle nostre azioni, che sono tutte, indistintamente, frutto della nostra debolezza. La nostra fragilità, per fortuna, ci esime dall’onere dell’eroismo: un peso da cui anche Kate, la taumaturga, la pioniera del sentimento che sfida i pregiudizi, provvederà, con le sue stesse mani, a sollevarsi. Questa rinuncia al messaggio definitivo e chiarificatore - di cui la conclusione “aperta” del film volutamente priva lo spettatore – è parte dell’impegno che lega l’autrice al contratto programmatico ideato da Lars Von Trier: quel voto di castità che prevede di trarre la verità dai personaggi e dalle ambientazioni, astenendosi dal creare “un’opera”, perché l’istante è più importante del complesso.
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