Regia di Raoul Ruiz vedi scheda film
Un andare allo sbando fatto di parole, e che attraversa gli spazi cittadini senza posarsi da nessuna parte. Nel primo lungometraggio portato a termine da Raul Ruiz, l’esistenza è un vagabondaggio del pensiero, che circola intorno al vuoto di idee, accarezzando le piccole casuali follie della mente. Nei luoghi in cui, come nel Cile della crisi economica e delle tensioni politiche, la libertà non può imboccare il corso principale della vita della società, non le rimane che muoversi ai margini, lungo le stradine laterali, passeggiando tra scampoli di fantasia e picchi di nonsenso. Nei discorsi, i concetti sono concatenati per superficiale attinenza logica, come lo sono, per semplice affinità di suono, le sillabe di uno scioglilingua (Tres tristes tigres triscan trigo en un trigal è quello a cui fa riferimento il titolo). Il chiacchiericcio si sviluppa al limite del delirio: è un ricorrersi di frasi che si affollano, a volte girando in tondo, mentre intorno tutto è vano. I protagonisti di questo errare sono due uomini e una donna: tre personaggi indefiniti che, conversando tra loro, si riferiscono alla vita come a qualcosa che conoscono da lontano, e che li riguarda ben poco. Il più appartiene al passato, ai ricordi personali ormai archiviati, al sentito dire di un’epoca che non esiste più. Tutto è inconsistente e incerto, a cominciare dagli elementi che, in condizioni normali, sono i fondamentali punti di riferimento dell’agire umano: il lavoro è solo un cumulo di carte (relative alla conclusione di un affare di cui non è specificata la natura), le indicazioni temporali sono vaghe e contraddittorie (il presto si confonde col tardi), l’amore è un incontro futile ed occasionale (che dura quanto uno strip-tease e si annega nell’oblio di un’ubriacatura) e anche le questioni di denaro vengono trattate con approssimazione. Il movimento della cinepresa asseconda l’ondeggiamento dell’azione e i traballanti equilibrismi di una dialettica che è una successione di rimbalzi, di domande respinte al mittente, di risposte eluse. L’atteggiamento complessivo è all’insegna del disimpegno, dell’indifferenza, della mancanza di progettualità: è pura inquietudine, travestita però da trasgressione. La ribellione, pur inseguita, non giunge a maturazione, perché rimane impigliata nei cavilli pseudo-intellettuali di chi si preoccupa troppo del nome delle cose (le spogliarelliste di un locale, le mosse della boxe), trascurando la loro sostanza. La rivoluzione è un’iniziativa tempestiva e unitaria; questa storia, invece, è un continuo lasciarsi, rinviare, tirarsi indietro, frammisto ad un attivismo volutamente vacuo. La vita pubblica è fatta di perdite di tempo, analoghe a quei trastullamenti che, ognuno di noi, riserva a certi momenti di privato relax. Il caos stanco e inconcludente di questo film è l’indeterminatezza che precede la rinuncia: è la premessa a quella sconfitta morale che, tre anni dopo, Ruiz metterà in scena, con un analogo stile, in Nessuno disse niente. In Tres tristes tigres il realismo improvvisato alla Cassavetes si sposa al surrealismo teatrale, che rende protagonista il dialogo e, ancor più di quest’ultimo, la sua tragica mancanza di senso.
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