Regia di Matthew Vaughn vedi scheda film
Una variegata tendenza citazionistica anima il prequel della trilogia cinematografica degli X-Men di Bryan Singer, qui produttore. Nel complesso macchinario di moto al luogo verso i film precedenti si inserisce la filologia del fumetto che retrodata l’ambientazione agli Anni 60 in cui effettivamente ebbero i natali i mutanti. Questo salto temporale permette l’ibridazione del genere supereroistico moderno con la cinefilia archeologica dell’epoca e l’innesto della saga bondiana, da cui si mutano ambientazioni e scenografie, divertiti clin d’œuil a Kubrick (la sala del consiglio di guerra derivata da Stranamore) e ammiccamenti musicali in sintonia (007, certo, ma anche Mission: Impossible) a cui rimandano anche i titoli di coda, espressione stilizzata delle sigle di testa dell’agente segreto inglese.
Con la consapevolezza tarantiniana del riuso sistematico ma con penna registica addomesticata, Vaughn offre un accurato divertissement cinematografico che sfrutta appieno il recupero vintage inaugurato da Mad Men, da cui preleva anche la protagonista January Jones (qui Emma Frost) e ne ribadisce la flemma annoiata, e si inserisce ironicamente nel filone del “romanzo storico” introducendo elementi fantastici in un palinsesto reale accertato. Non solo, quindi, il film si ripropone di recuperare la tradizione Marvel, ma rivitalizza la tendenza alla costruzione del fittizio all’interno della verità storica tipica della serialità americana incastonando nella guerra fredda e nella crisi di cuba le vicende dei supereroi mutanti.
Nato come gruppo di teen-ager disadattati per la propria diversità e riuniti da Xavier per addomesticare i rispettivi poteri e votarli alla giustizia, gli X-Men sono affini per età e disagio sociale e psicologico a Spider-man; il film che ne ritrae la nascita e formazione di avvicina all’ottica nel teen-drama nella costruzione di un percorso di emancipazione e consapevolezza progressiva di capacità e responsabilità. Eppure, più che delle giovani reclute, il film si premura di ritrarre il bildungsroman dei due più maturi antagonisti, Xavier e Magneto, le cui personalità e caratteristiche sono in costruzione e giungono a definizione solo al termine della pellicola, in tempo per fungere da introduzione alla saga di Singer.
Ed è appunto sul dèjà-vu che si basa il film, sul rimescolamento di ingredienti noti e sulla loro presentazione conforme alle aspettative, con l’abile miscela di guerra fredda e di reminescenza bellica (l’Olocausto lontano solo pochi lustri dagli eventi narrati e ribadito con fedeltà dal primo X-Men), il sottotesto razzista e la conseguente ambizione all’omologazione sullo sfondo per la supremazia sul pianeta, con la frenesia geografica delle pellicole spionistiche assieme alla valenza vendicativa dell’opus di Tarantino (Magneto mai redento incarnato dal Michael Fassbender di Inglorious Basterds), teen-drama e romanzo di formazione, il recupero dei trucchi già presentati ma in tono minore, con una certa ingenuità ‘prostetica’ che rende il maquillage deficitario. Del resto, è un film sull’apprendimento e sulla messa in pratica della conoscenza acquisita, anche per un regista che passa dai supereroi improvvisati e improbabili di Kick-Ass ai superpoteri dei mutanti.
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