Regia di Michael Crichton vedi scheda film
Non è originalissimo, il tema della rivolta della macchina e del suo trionfo sull’uomo: l’avevano già affrontato grandi quali Lang e Kubrick, in due dei loro più fulgidi capolavori. Ma non l’avevano trattato così come fa Crichton in Westworld. Non c’è una divisione propriamente manichea uomo buono-macchina cattiva, come per esempio in 2001 - HAL 9000 è uno dei nemici probabilmente più inquietanti della storia del cinema – ma sfumata ed incerta. Diciamocelo: il parco di Delos è un enorme sfogatoio per ricconi repressi. L’uomo vi si reca non per diporto, o con lo spirito del turista, ma per sperimentare l’ebbrezza dell’uccidere, gratuitamente, senza pagare lo scotto delle conseguenze. Il primo piano per un’analisi del film è quindi il profondissimo iato fra la modernità sconvolgente del parco - frutto del più alto ingegno dell’uomo – e la volontà di soddisfacimento degli istinti che è alla base della sua concezione. Non so se sia una critica volontaria o meno alla deriva inarrestabile dell’uomo moderno, dell’uomo occidentale: ma viene metaforizzato con sorprendente efficacia questo abbandonarsi mollemente ai mille comfort che offre il nostro mondo attuale; da una parte assistendo da un oblò, con indifferenza, alla fiera della distruzione; e dall’altra, covando un desiderio inespresso, che l’uomo nega persino a se stesso, di essere parte attiva del massacro, frenato solo dalla legge positiva, e non già da codici morali.
Ma c’è molto di più. La smeraldina sicumera con cui l’uomo spara agli androidi è pari solo alla goffaggine e all’imperizia con le quali si trova costretto ad affrontare la loro ribellione. L’uomo nel corso del tempo è sempre rimasto lo stesso (homo homini lupus) nella sua parte istintuale, la più intima; ciò che è cambiato sono le condizioni al contorno, ovvero la repressione da parte dell’ordine costituito, e soprattutto il raggiunto benessere. La falsa pace che ci circonda ci ha reso più vulnerabili: più smidollati, senza nasconderci dietro un dito. Quindi ci riesce molto facile l’aggressione al nostro nemico col favore delle ombre, ma il confronto, in singolar tenzone, de visu, è ormai inattuale. L’uomo occidentale è regredito rispetto al passato. Si è rifugiato negli aurei padiglioni della sua agiatezza, dimenticando e negando la sua vera dimensione, quella di animale non-sociale; e ripescandola fuori solo quando non ha nulla da perdere. La civiltà è un’illusione. E’ un’adulterazione della natura umana. Certo, è una garanzia di stabilità e sicurezza, ma a che prezzo? Quello di renderci tutti dei replicanti, molto più di quelli presenti sull’isola di Delos.
Ma Westworld è anche una riflessione sul cinema. Che cosa sono, gli scenari western, peplum, medioevali del parco, se non set cinematografici? Che cosa sono, se non luoghi che gridano la propria finzione? Nel cinema, come a Delos, è tutto finto, e lo sappiamo bene. I visitatori di Delos sfruttano le finzioni del parco per poter aspirare a conquistare qualcosa di reale (la loro vera natura); così noi, ogni volta che guardiamo un film al cinema, tentiamo disperatamente di ritrovarvi qualcosa di noi. E tanto è maggiore è la finzione, tanta più è la diversione rispetto all’apparato della realtà, quanto è più probabile che vi troviamo rappresentato del vero. Perché la realtà in fondo è tutta finta, tutta di cartapesta, è un compromesso. Yul Brynner che insegue la propria preda uscendo dalla fiction e proiettandosi dentro la realtà, non è altro che la plasticizzazione in forma umana (anzi, robotica) di tutti quei film che ci perseguitano negli anni e nei decenni, nei nostri pensieri e nei nostri sogni, raccontandoci verità che altrimenti ci rifiutiamo di guardare in faccia nella nostra vita reale.
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