Espandi menu
cerca
C'era una volta in Anatolia

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

Recensioni

L'autore

laulilla

laulilla

Iscritto dal 21 febbraio 2015 Vai al suo profilo
  • Seguaci 100
  • Post 15
  • Recensioni 723
  • Playlist 4
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su C'era una volta in Anatolia

di laulilla
9 stelle

Gran bel film, premiato a Cannes nel 2011 col Premio speciale della giuria. amaro ritratto di un paese immobile e incerto, fra modernità e barbarie, fra razionalità e superstizioni, fra voglia d’Europa e inerzia conservatrice.

 

È il racconto del viaggio notturno di un convoglio di tre auto, a bordo delle quali si trovano un assassino, di nome Kenan (Firat Tanis) e il suo complice, insieme ad alti funzionari dello stato: un commissario di polizia, Naci (Yilmaz Erdogan), un medico legale, Cemal (Muhammet Uzuner) e un giudice procuratore, Nusret (Taner Birsel).

Al loro seguito, una pletora di addetti specializzati che, secondo le incerte indicazioni di Kenan, dovrebbero localizzare la sepoltura dell’ucciso, dissotterrarne il corpo con la cautela necessaria a rendere possibile il successivo esame autoptico, indispensabile a determinare la gravità della colpa del reo confesso.

 

Ai piedi delle colline anatoliche, le strade si somigliano tutte, cosicché non è sufficiente sapere che il cadavere si trova nelle vicinanze di una sorgente e di un albero a forma di pallone: il buio sempre più profondo, schiarito da qualche lampo minaccioso, rende inutile l’esperienza dell’esperto di mappe, così come quella dell’autista;  occorre attendere la luce del giorno per trovare il luogo giusto, il corpo dell’ucciso e procedere al suo riconoscimento.

 

Nel corso della notte, gli spostamenti infruttuosi e la stanchezza generale avevano creato un clima di tensione e di nervosismo, che si era un po’ allentato solo durante la sosta  presso il sindaco di un paesetto, che, speranzoso di ricavarne qualche vantaggio, aveva offerto a tutti ospitalità e cibo, e anche un po’ di luce, con le belle lampade a petrolio che provvidenzialmente rimediavano ai frequenti blackout.

 

 

 

 

Si stava avvicinando per Kenan e il suo complice Il momento, atteso, della verità, probabilmente assai meno lineare di quella confessata; quella notte oscura, con improvvisi bagliori  e qualche tremolante luce è una notte di inquieti tormenti, di memorie che riaffiorano e non lasciano tranquilli, ciò che vale per tutti i personaggi del film, dal commissario, al medico, al procuratore – soprattutto quest’ultimo che, fra reticenze e mezze ammissioni, aveva cercato qualche risposta rassicurante per tranquillizzare la propria coscienza turbata dall’inspiegabile suicidio della moglie –

 

Nuri Bilge Ceylan intreccia, in questo suo lavoro, alcuni temi per loro natura ricchissimi di implicazioni metaforiche e simboliche, come quello del viaggio o quello dell’imminente tempesta, con  la rappresentazione di una società in cui, alle evidenti trasformazioni, si accompagnano numerosi residui di un passato che non è stato completamente abbandonato e che non può che colpirci .


Si nota in primo luogo la separatezza del mondo delle donne – destinate o al matrimonio di convenienza, o a languire nelle cucine delle vecchie abitazioni sperdute, per imparare ad aver cura dei vecchi genitori e dei fratelli – da quello dei maschi, dei figli a cui è affidata la carriera nello stato, preferibilmente, o anche nelle fabbriche che cominciano a sorgere.
Le donne costituiscono, per tutti, un universo inquietante e misteriosamente incomprensibile: il loro ruolo sociale si esaurisce nella maternità; di una loro possibile autonomia, di un’eventuale libertà di scegliere nessuno parla.

 

Allo stesso modo balza agli occhi la persistenza di una certa barbarie persino nei rapporti fra amici, parallela all’arretratezza nelle incombenze più delicate (il dissotterramento del cadavere a mani nude, o l’autopsia eseguita senza protezioni al volto e senza camice, al di là del significato emblematico e simbolico di queste operazioni nel complesso del film).

 

Eppure, se analizziamo il film attentamente, scorgiamo, sotto l’apparenza certamente urtante, relazioni inestricabili fra arcaismi e modernità; vediamo che Kenan ha una sensibilità e un’etica talvolta superiore a quella del commissario Naci, che si lascia prendere dall’impazienza e lo picchia, con disumana ferocia.  

Il medico, il magistrato, o l’ufficiale cartografo (che sa, inutilmente, tutto) presentano il volto moderno del paese, quello di coloro che vorrebbero entrare in Europa, ma non manifestano una chiara comprensione della realtà, che cercano di dominare o attraverso il linguaggio burocratico - insufficiente a spiegarne la complessità (il giudice) - o attraverso un'ingenua e acritica fiducia nella scienza, accompagnata contraddittoriamente  da troppi luoghi comuni (le donne non perdonano mai… i figli impediscono libertà e carriera), frammenti di presunta saggezza che stupiscono sulla bocca di un medico - o coll'egoismo neppure troppo dissimulato – come Naci, che ha affidato completamente alla moglie il figlio malato, per occuparsene il meno possibile.

 

Il viaggio, insomma, è un pretesto per parlare d’altro, per scrutare il percorso della propria vita da parte di ciascuno dei protagonisti di questa strana ricerca. Ecco che allora si chiarisce “l’eterno ritorno” sulla strada di partenza, magari un po’ più in là, ma senza sostanziali mutamenti: la vita non è altro che questo continuo ripetersi vano di fatti e circostanze senza luci o varchi capaci di indicare una via d’uscita o un senso. Più si medita su questo film, più si scoprono simboli e significati, che da una parte si collocano nella visione ciclica dell’esistenza tipica del mondo orientale, ma dall’altra ci portano molto vicino a noi, alla cultura filosofica e letteraria del novecento.

Una sorta di fatalismo, di stanchezza esistenziale coinvolge tutti i protagonisti del film che accettano, in fondo, come i frutti che rotolano nel fiume trascinati dalla corrente, o le fronde piegate dal vento implacabile, che le cose proseguano secondo le tradizioni più dure a morire. L’unico che esprime una volontà difforme pare essere l’assassino Kenan, che piange per la sassata di quel figlio che non ha potuto, né potrà mai riconoscere.


Il film è bellissimo, necessariamente lento, scuro come gli animi dei diversi protagonisti, nessuno dei quali è del tutto colpevole o innocente.

 

Bellissima la fotografia; ottimi tutti gli attori.



Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati