Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Tre auto girano nella notte nel vasto territorio dell'Anatolia. Sono alla ricerca del cadavere di un uomo sepolto in un luogo non ben definito. Conducono la ricerca il commissario Naci (Yilmaz Erdogan) con i suoi uomini, il medico legale Cemal (Muhammet Uzuner) e il procuratore Nusret (Taner Birsel). Li accompagna Kenan (Firat Tanis), il presunto assassino, quello che dovrebbe condurli nel posto esatto dove è sepolto il cadavere. Ma Kenan non ricorda molto e afferma che era ubriaco quando ha compiuto il gesto efferato. Così la ricerca si fa lunga ed estenuante, diventando un po' per tutti il pretesto per una proficua ricognizione esistenziale.
"C'era una volta in Anatolia" (premiato a Cannes con il "Gran Prix speciale" della giuria) del turco Nure Bilge Ceylan è un film dalla bellezza algida, un polizieso a dir poco anomalo che si premunisce di concentrarsi più sulle pene interiori dei suoi attori che sulle cause effettive di un omicidio. É in una notte come tante che si compie gran parte dell'azione, una notte che si apre a scenario sul quel dilemma chiamato uomo. A fare da sfondo c'è la Turchia, un paese che, nel mentre le auto si addentrano sempre più dentro il vasto territorio dell'Anatolia procedendo ad oltranza lungo un percorso che sembra tracciato dal caso, mostra tutta la solidità dei suoi caratteri retrivi. Come se allontanarsi dal centro significasse tornare indietro verso un passato sempre vivo.
Ci sono verità che è meglio rimanere sepolte quanto più a lungo possibile ed altre che il cervello umano si rifiuta di accettare per la troppa paura che sanno arrecare. Tra questi due tipi di atteggiamento, esiste un limbo dove il dovere di ricercare la verità è controbilanciato dalla necessità di presevare la natura umana dall'eccessiva esposizione delle proprie debolezze. É in questo limbo che Nure Bilge Ceylan fa muovere i suoi personaggi, pedinandoli mentre elaborano pensieri sciolti che acquistano un senso solo se inquadrati nel paesaggio complesso e multiforme della vita, facendoli rimanere come in attesa di un segnale risolutore che serva a mettere di fronte ad una luce nuova e definitiva le precarietà esistenziali di ognuno. Il girovagare continuo lungo tutta una notte e attraverso un territorio che offre scenari troppo simili tra di loro per non sprigionare un impaziente senso di confusione, diventa l'occasione per tutti di fare un po' i conti con gli spettri latenti delle rispettive coscienze. É l'attesa prolungata che si lega alla necessità di portare a compimento un "normalissimo" caso di omicio a veicolare le riflessioni di ognuno (del Medico legale e del Procuratore in particolare) verso un doloroso flusso della memoria, a trasformare l'ordinarietà di un lavoro che si desidera concludere più in fretta possibile nella straordinarietà di una notte che sfugge al controllo di tutti per diventare un qualcosa da poter essere ricordata e raccontata dalle generazioni future. Non perchè ci si trovi di fronte a persone dall'alto profilo morale ed intellettuale e neanche perchè in essa accadono cose particolarmente significative, ma per il senso di morte che sa irradiare, intriso nell'esistenza di ogni personaggio perchè si nutre dei loro sentimenti più intimi e sinceri. Una sensazione che segue l'andamento ciclico delle auto e che si lega in maniera indissolubile alla perentorietà di pensieri irrisolti che sembrano trovare all'improvviso l'opportunità di completarsi. Così, un caso di omicidio che va facendosi sempre più complesso nell'esposizione dei fatti che l'hanno prodotto diventa il riflesso di una tipologia dell'umano che, dallo spazio condiviso con la morte, ha ricavato un'anestetizzazione irreversibile della propria carica sentimentale. É il disincanto che sta divorando il mondo il fatto straordinario che viene certificato in quella normalissima notte in Anatolia, un fatto che è del mondo e che proietta i suoi effetti su tutta l'umanità che lo popola. Quel disincanto che vale sempre la pena ricordare, quello che non concede neanche alla verità più evidente di recare il suo chiaro contributo alla causa della giustizia (come ci suggerisce il finale). Quel disincanto che è entrato nel ventre dell'uomo e che la intende rimanere.
Con questo film, Nure Bilge Ceylan si conferma un autore bravo nel dilatare il senso del racconto senza disperderne il fascino narrativo, ad agire per sottrazioni di stati emotivi arrivando comunque ad insinuare riflessioni profonde sullo stato delle cose. Con l'autore turco il cinema procede lento verso la meta prefissata, senza troppi slanci emozionali e senza gratuite concessioni spettacolari, i suoi personaggi sembrano riconoscersi come parti di un disegno più ampio, delle pedine in balia del divenire storico, intenti a prendere atto dei propri limiti e a riflettere sulla precarietà delle proprie esistenze. É un cinema dell'attesa.
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