Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
In una ventosa notte autunnale, sotto un cielo che minaccia tempesta, i fari accesi di tre auto della polizia setacciano i campi di una località dell'Anatolia alla ricerca di un abbeveratoio nei cui pressi sarebbe stato seppellito il corpo di un uomo che i due rei confessi dichiarano di aver ucciso poche ore prima. Il comandante della locale stazione di polizia,il procuratore ed un medico legale risolvono il caso solo all'alba, quando si profila il senso di una vicenda umana triste e dolorosa che in qualche modo incrocia le loro fallimenentari esperienze personali e familiari. Immersi nell'estenuante e incessante sibilio del vento che spazza le colline di una sperduta landa rurale e abbacinati dal vivido realismo di una stupefacente fotografia (del misconosciuto Gökhan Tiryaki) il pluripremiato regista Nuri Bilge Ceylan, costruisce con paziente indulgenza una sorta di giallo psicologico che prende le mosse dallo squallore di un banale fattaccio di cronaca nera per trasformarsi ben presto in una sorta di psicodramma collettivo dove, nel baluginante chiaroscuro di una notte da lupi, emergono le tensioni e le dolorose vicende di personaggi alle prese con la indicibile complessità della propria esperienza umana, una lucida e straziata ricognizione nei destini personali di uomini cui tocca in sorte la responsabilità di giudicare altri uomini oltre i limiti angusti e meschini di un mero dovere burocratico. Grazie allo stile personale che da sempre costituisce la cifra di un linguaggio intriso di una profonda umanità, il regista turco ci conduce in una sorta di viaggio 'metafisico' attraverso le steppe dell'Anatolia, nel non luogo senza tempo di una arcaica modernità, alla ricerca di un cadavere e del senso perduto dell'esistenza dove i destini di vittima , carnefici e inquisitori finiscono per incrociarsi nel 'cerchio rosso' di una ineluttabile convergenza, nel tragico determinismo 'Melvilliano'di un insinuante disincanto, trasfigurando così l'apparente banalità del soggetto nella suggestiva cornice di una elegante affabulazione. Questo livello 'simbolico' della narrazione si addentra nella furia degli elementi come lungo il tortuoso cammino dell'uomo di fronte alla crudeltà ed alla fragilità della propria natura (l'assassino piange nel guardare incantato il viso angelico della creatura che gli porge da bere: uno struggimento per la bellezza del mondo che lui ha tradito; il medico indulge in una 'diagnosi' favorevole al carnefice pensando al destino di un figlio senza padre). Penetrante e complesso anche dal punto di vista psicologico vive di uno straziato dualismo tra passato e presente, nel segno di una difficile continuità anagrafica (tra paternità mancata e surrogata), nel tema della colpa lungo il terreno scivoloso di una responsabilità personale verso se stessi e verso l'altro, nel maturo disincanto di un destino crudele e inane. Forse un pò irrisolto nelle eleganti sfumature del sottotesto è comunque un film notevole e di sicuro l'opera migliore del regista turco. Vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes.
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