Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Uno dei capolavori del regista turco Nuri Bilge Ceylan: amara allegoria dell’attuale Turchia e dell'animo umano
“C’era una volta in Anatolia” è un atipico “film giallo”, un’opera potente e rarefatta, insolita per lo spettatore medio, perché per più di due ore non accade quasi nulla in fatto di trama (le azioni sono sempre le stesse, ripetitive ma emblematiche), però tantissimo in fatto di interiorità psicologica dei singoli personaggi. Potremmo dire che la storia poliziesca sia stata volutamente presa a pretesto per raccontare e rappresentare ciò che succede nei meandri dell’animo umano; come se la vera indagine dovesse essere quella dell’umana natura, dei volti e dei corpi dei personaggi, e non piuttosto dell’oggetto della trama.
Firmato da Nuri Bilge Ceylan, sceneggiatore, regista ma anche montatore e produttore turco che alcuni hanno definito il «Michelangelo Antonioni della Turchia», quest’opera è stata giustamente molto acclamata dai critici internazionali e ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria al 64º Festival di Cannes – premio che va ad aggiungersi ai tanti altri che il pluripremiato regista ha sempre ottenuto a Cannes (ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria nel 2003 per il film “Uzak”, il premio per la miglior regia nel 2008 per “Le tre scimmie”, e la Palma d'oro per “Il regno d'inverno - Winter Sleep” nel 2014).
Tecnicamente straordinario, girato in digitale (con una Sony F35) e impreziosito da un formato panoramico che esalta la stepposa vastità della regione anatolica, la pellicola ha un fascino tutto atmosferico, visivo, viscerale; parla di vita e morte, omicidi e suicidi, passato e presente, si svela lentamente e viviseziona l’animo dei suoi personaggi (tra cui il protagonista, interpretato da un intenso Taner Birsel).
Senza ruffianeschi colpi di scena, abili giochi di suspance, inseguimenti o sparatorie del caso, il film riesce più del pensabile (e malgrado l’estenuante durata di 157’) a creare un’opprimente atmosfera noir (soprattutto dell’anima) e a trasmettere tensione, intrigo e coinvolgimento.
La folgorante messa in scena visiva, con spazi larghi e particolareggiati è la cornice ideale per un vero e proprio trattato sulla natura umana. Grazie alla sua eleganza formale e stilistica, tutta contemplativa e intimistica, evoca un senso autentico della condizione umana, osservata nell’aspetto della Natura e dell’esistenza, ma anche e soprattutto, in quello del singolo individuo, della società e di un popolo come quello turco.
Tre auto vagano silenziose nel cuore della notte sulle colline dell’Anatolia. A bordo ci sono un medico, un commissario, un procuratore, alcuni poliziotti, un assassino e il fratello. Devono ritrovare il corpo di un cadavere. Purtroppo l’omicida racconta che era ubriaco e non riesce a ricordare dove lui e il fratello abbiano sepolto la vittima. La ricerca continuerà fino all’alba, quando finalmente la salma sarà ritrovata e ogni cosa troverà una qualche spiegazione...
E’ strano vedere questi uomini che cercano, avanzano, discutono, si fermano, riprendono il cammino.
Ma è anche tanto triste, perché restano legati a un assassino e a dei misteri che emergeranno sempre più lentamente, a fatica e oscuramente. E’ bastata questa lineare, semplice ma complessa trama, un gruppo di bravissimi attori, la magnifica fotografia (di Gokhan Tiryaki), la suggestiva ambientazione nella steppa e nelle sequenze notturne, gli espressivi primi piani, e ancora, la dilatazione dei tempi, l’incisività della regia, l’inquietudine delle tenebre, i lunghi dialoghi serrati e cechoviani, a far si che quest’opera diventasse un capolavoro, in sè importante e necessario.
Il lungo girovagare in auto, in una ricerca che sembra non finire mai, è utilizzato per far provare agli spettatori gli stati d'animo, i pensieri e le sensazioni dei singoli personaggi; e diventa l’occasione per scoprire le dinamiche nascoste che si accendono tra gli uomini, e soprattutto l'opportunità per intuire i segreti, le ossessioni, le paure e le angosce che costoro non riusciranno più a tenere nascosto. Lo svelamento di amare rivelazioni, che avanza lentamente ma in modo sempre più crescente e inevitabile, ci servirà alla fine a comprendere le vere ragioni che hanno mosso le azioni di costoro.
La ricerca del cadavere diventa la rincorsa a una propria personale epifania, che poi è quella dell'essere umano che, in un processo di trasformazione, prende consapevolezza di sé. E’ dunque questo l’aspetto che si evidenzia maggiormente nelle intenzioni del regista e nelle pieghe della sceneggiatura: un testo che è un viaggio negli abissi dell’anima destinato a portare alla luce verità nascoste e segreti seppelliti nel più profondo dell’Io nell’attesa che la rimozione e il tempo li condannino per sempre nell’oblio. Ma la lunga notte estenuante e la conversazione forzata cui devono sottostare i personaggi, porta ognuno di loro (e anche il taciturno assassino) a far riemergere queste realtà indicibili in un percorso involontariamente maieutico scatenato dal confronto verbale e dal paesaggio ambientale che farà da cassa di risonanza intimistica e introspettiva.
Riconoscendo in Cechov una delle proprie fonti di ispirazione, Nuri Bilge Ceylan ci offre inoltre un film sulle modalità di visione, sulla difficoltà di mettere a fuoco ciò che ci si presenta, sulla necessità di ancorare lo sguardo a punti di riferimento certi e definiti.
In una messa in scena visiva e magnetica; caratterizzata da una Natura maestosa, selvaggia e indifferente che schiaccia i personaggi ma ne riflette anche i loro stati mentali; il regista turco espone un bellissimo affresco politico-etnografico per riflettere su che cosa resta della Turchia di oggi.
Una Turchia senza più punti di riferimento e immersa in orrori quotidiani, divisa e persa fra tradizione e globalizzazione; smarrita in una condizione di avanzamento statico e incerto.
I tre personaggi principali, i tre uomini, ne simboleggiano la legge, la scienza e l’ordine in preda a confusioni e fragilità; l’assassino è allegoria del passato caratterizzato da atti violenti, mentre il cadavere introvabile la conseguenza di questi ultimi e di sentimenti oscuri.
Attraverso i dialoghi e le relazioni tra i personaggi, i ricordi e i gesti di ognuno di loro (emozionante la sequenza in cui questi uomini si fermano ad ammirare la bellezza, intravista e illuminata dalla fioca luce di una candela, della figlia del sindaco di un villaggio – una scena che sembra uscita da un quadro di Jan Veermer), il regista guida lo spettatore in un lento e faticoso cammino di un popolo, caratterizzato da soprusi e pietà, e diretto verso un’agognata luce.
Il girovagare a vuoto dei personaggi diventa allora metafora di questo paese sospeso tra il buio e la luce, tra il bisogno di un ordine e una chiarezza, e il tormento di una solitudine caratterizzata dall'assenza di morale e sentimento a un livello incorrotto.
Sotto questo aspetto il film è interessante e doloroso, ma anche vitale e utile, perché, nel descrivere i limiti esistenziali e umani (raffigurati metaforicamente sia da un’Anatolia sperduta e remota, sempre identica nel suo paesaggio arido, sia dal sentimento di rassegnazione e stanchezza dei personaggi), il regista non trasmette soltanto una dilagante disperazione. Nel suo rigore morale lancia anche un invito alla speranza.
L’uomo non deve arrendersi, non deve cedere al buio di una notte che non fa distinguere e capire nulla, ma deve costantemente continuare la ricerca. E’ l’unico modo per poter sperare di arrivare ad una piena coscienza di sé e far luce su molte cose di questo mondo…
CURIOSITA’:
1. Il film è il sesto lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan che ha diretto “Kasaba” (1997), “Nuvole di maggio” (1999), “Uzak” (2002), “Il piacere e l'amore” (2006), “Le tre scimmie” (2008), “Il regno d'inverno - Winter Sleep” (2014) e “L'albero dei frutti selvatici” (2018).
2. Questa pellicola è stata anche montata e prodotta dal regista turco, e, come altre sue opere ha avuto la collaborazione della moglie in fase di ideazione e scrittura della sceneggiatura, l’attrice e fotografa Ebru Ceylan. La sceneggiatura è stata firmata anche da Ercan Kesal, attore e interprete in questo film, ma anche sceneggiatore di “Uzak” assieme a Nuri Bilge Ceylan.
3. Il minutaggio finale di 157’, notevole ma giustificato dalle esigenze della narrazione, è il risultato della scrematura di un primo montaggio di circa 210 minuti.
4. Questa pellicola viene citata in un dialogo di “Taxi Teheran”, film del 2014 diretto da Jafar Panahi.
VOTO: 8½ / 9
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