Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Beh, tutto qua? Questa è la prima cosa che ho pensato al termine della visione di "Drive". La critica sta trattando Refn come autore fra i più interessanti e "teorici" della Hollywood anni 10 (di questo secolo, ovviamente). Anche su questo sito, la sua controversa (?) estetica suscita molte interessanti discussioni, un po' come l'inglese McQueen, altro cineasta in voga in questo inizio decennio, "contestato" da molti per via di uno sguardo cosiddetto "estetizzante". Ebbene, da quello che ho visto fino ad ora, mi pare ci sia un abisso fra i due. "Drive" è un discreto thriller/noir. Patinato? Lambiccato? Stilizzato? Ok. Ma dove sta la novità? Dove risiede il valore di questa scelta estetica? Cosa implica il fatto di mettere in scena la consueta sordida losangelina vicenda di sangue con uno stile così "chic-coso", così studiato, fra titoli di testa in corsivo rosa, femmineo contrappunto synth-pop, ralenti, montaggio plastico e altri espedienti manieristi? A mio avviso, c'è ben poco di teorico, meta-filmico o quant'altro in tutto questo: semplicemente, "Drive" è un film girato bene, con una certa economia di dialoghi ed inquadrature, con il gusto della sequenza impacchettata ad arte, una definizione di personaggi piatta come una sogliola e qualche sano momento quasi-splatter. Film post-moderno come se ne fanno da 30 anni, grottesco ma privo di ironia, nè morale nè cinico, ma premeditatamente vuoto. Siamo abbastanza lontani sia dall'iperrealismo coreografico del John Woo hongkonghese sia dal neo-classicismo smaliziato del James Gray di "We own the night", per citare due possibili referenti. Velleitarie le tentazioni lynchiane della prima, lenta metà di film, come resta irrisolta la metafora del "guidare" (il protagonista è un silenzioso e solitario asso della guida spericolata: e quindi?). L'improbabile evoluzione psicologica (?) del protagonista, da mansueto vicino di casa a feroce assassino, è dettata dall'amore per una bella biondina (!) e scandito da premeditate sottolineature registiche. Refn affida questa bizzarra figura alla maschera impassibile di Ryan Gosling, attore di rara ed incredibile inespressività, così "gatto di marmo" da risultare simpatico (mi scappava una risata ad ogni suo primo piano). Ora, anche la scelta e la direzione dell'attore rientra per forza in una logica precisa: quella di creare uno straniamento, una distanza fra spettatore e film (alla stregua delle succitate tecniche di montaggio e regia). Il problema è che, da questa distanza, non scaturisce alcuna rilevante riflessione sui temi (ad esempio) del denaro, della violenza, della vendetta, dell'amore etc...(anche perchè Refn non ha avuto il coraggio di portare avanti fino in fondo questa scelta, smentendone l'assunto in più di una occasione). Quindi, in fin dei conti, il personaggio di Gosling non è una metafora in carne ed ossa della irreprensibile banalità del male (o quant'altro), ma semplicemente un personaggio goffamente scritto e ancor peggio interpretato, tuttavia funzionale allo spettacolo; nè "Drive" è una riflessione sull'estetica della violenza o la storia del noir o il "mal d'America" (o quant'altro), ma semplicemente un discreto film, asciugato ed essenziale (un po' come gli western di Boetticher), godibile e talora spassoso. Tutto qua.
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