Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Fulminante sequenza d'apertura degna del miglior Michael Mann. Un eroe dark, solitario, taciturno, combattivo, pericoloso e pronto colpire come lo scorpione stampato sul giubbotto, bianco candido a inizio pellicola, zeppo di sangue alla fine. Tornano alla mente i protagonisti di certi Carpenter (Snake Pliskeen con tanto di serpente tatuato sul braccio sin dalla locandina, nonostante lo "iena" italiano) e di certi Hill (i guerrieri col gilet di pelle con tanto di stemma e il titolo stesso che dichiara una provenienza netta). Stessi personaggi, che si muovono in metropoli labirintiche, dove le strade sono l'habitat naturale dello svolgimento dell'azione, lo scenario perfetto per vicende tragiche e adrenaliniche. Il pilota stuntman senza nome, eastwoodiano fino all'osso, è catapultato in inseguimenti e faccende malavitose legate col col cordone ombelicale a Friedkin e Scorsese. Sbarca nuovamente in USA Winding Refn, con un biglietto visita che è un concentrato di riferimenti del genere dunque, non vero citazionismo però alla Tarantino (l'accostamento non disturbi: si parla comunque di talenti cinematografici di spessore), semplicemente uno scendere sullo stesso terreno degli specialisti dell'action-gangster-thriller movie. Ma il regista danese ha personalità da vendere e, in un'ora e mezza perfettamente calibrata e condensata, riesce a piazzare tutto il suo campionario stilistico: dilatazione dei tempi, esplodere improvviso di violenza rasente l'horror, lirismo d'immagini e ralenty mai così funzionali e determinanti, alternarsi continuo di campi, evidenti richiami pittorici (ancora tableau vivant), cromie e disposizione di corpi e volti (e MDP) mai casuali o scontate, un epilogo giocato sulle ombre che accentua genialmente l'ultimo scontro per sottrazione, per contrappunto, attori ben diretti e misurati che non cedono all'istrionismo di altri più blasonati colleghi. La storia è persino classica: un cortocircuito tra i protagonisti in scena scatenato dalle scelte del nostro, un Gosling glaciale e imperscrutabile. Altra nota caratterizzante tutto il cinema di Refn: a fatti esterni di ineluttabile gravità corrisponde un'interiorità dell'antieroe di turno tormentata, regolata da meccanismi propri, in qualche forma etici e rispondenti ad una giustizia altra, rasente la follia. Il contrappunto tra momenti estatici ed altri di vulcanica primordialità denotano una cadenza del racconto che diviene stile e coerenza di percorso, rapportato ai precedenti episodi filmici del regista. Difficile emozionarsi e partecipare sino in fondo a film di questo tipo, eppure in tal caso durante e a fine visione ci si scopre letteralmente incollati allo schermo e alla poltrona, grazie tra l'altro ad un uso della colonna sonora personalissimo ed efficace, rodato, in cui l'elettronica e il pop riescono ad amplificare e rendere il girato ancora più visionario e autoriale. Senza quasi che ce ne accorgiamo, viene scardinato da dentro persino il mondo del cinema stesso, con il carrello del ribaltamento d'auto e le liberatorie firmate all'ultimo dallo stuntman, preso dentro dal potere incontrastato dei produttori (quindi metacinema). E forse cambia poco anche la prospettiva di un team di auto da corsa finanziato dai soldi della mala, il cui boss crudele se la vedrà faccia a faccia con una maschera che è Bronson e Michael Myers assieme. C'è l'elemento amore che muove i passi del talentuoso e sanguinario pilota, cavalleresco, romantico, inarrestabile, addirittura mosso da sentimento paterno (e qui un'altra ellissi sul passato e la provenienza dell'uomo); dunque Eros e Thanatos ancora una volta a braccetto. E c'è l'apertura del finale, l'ennesimo sorprendente guizzo di un'opera solo apparentemente già vista e celebrativa, solo apparentemente sghemba e di routine, in realtà consapevolissima e figlia perfetta di una regia che sa imporre il suo marchio di fabbrica come raramente si percepisce in giro ai nostri giorni. A Cannes qualcuno ha capito.
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