Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film
L’evento notevole di … E ora parliamo di Kevin è una strage: l’uccisione di studenti adolescenti per mano di un pari, sul palcoscenico di una scuola della provincia americana. Il punto di vista è quello della madre dell’assassino; la trama lo scavo nella memoria del complesso rapporto con il figlio; la protagonista, non la donna, ma la sua mente: … E ora parliamo di Kevin è la messa in scena di un teatro d’ombre, un’indagine nei labirinti della psiche all’insegna di una domanda sfiancante, pronunciata solo alla fine: «Perché?». Ma le risposte, ovviamente, non ci sono. Perché il senso delle cose eccede le semplificazioni verbali, i bigini di sociologia, gli schemi della psicanalisi. Perché non si parla di Kevin, qui: si dà forma puramente cinematografica al paesaggio emotivo di un personaggio, all’essenza insieme sublime e terrificante della maternità, allo strazio di un senso di colpa che non si sa quantificare, alla lotta tra il canone morale e il sentimento intimo. Alle piccole morti quotidiane che seguono il trauma. Corteggia Lacan e Maya Deren, la Ramsey. E monta per associazioni violente, insiste in metafore dissolute e sgradevoli, avvolge le scene in un tappeto sonoro sempre dissonante (opera di Jonny Greenwood). Perché ha l’ambizione di aggredire i sensi, prima che accomodarsi sulle logiche automatiche dell’intelletto. E crede in un cinema che agisca sullo spettatore, che faccia sperimentare i moti delle viscere e non s’accontenti di spiegarli. Perché ... E ora parliamo di Kevin dà forma a quello che le parole non dicono. La conseguenza è ovvia: ogni gesto di Tilda Swinton umilia interi ma-nuali di psicologia.
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