Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film
C’è tutto un filone cinematografico dedicato alle stragi scolastiche, ed è inutile in questa sede farne una piccola guida. Basterebbe solo ricordare come la conflittualità americana tra padre e figlio, presi mitologicamente, è molto più esasperata della nostra europea, e vede quindi nella risoluzione violenta, nello spargimento di sangue e non di sperma, l’unica possibilità di deviazione. Deviazione in tutte le sue accezioni, sia come degenerazione sia come cambio di rotta e di sentiero. Massacrare e distruggere i propri coetanei in un ambiente, come quello della scuola, che è emblema e alcova della propria generazione, è un atto demolitore/dominatore che sfoga la complessità del rapporto padre/figlio. Ma se poi pensiamo che il secondo paese al mondo in stragi studentesche è la Finlandia, che non solo è un paese europeo, ma è anche il secondo paese al mondo in cui è facile per un minorenne accedere alle armi da fuoco, vediamo come le elucubrazioni psicologiche, sociali, culturali e quant’altro non servono a nulla. È solo un problema politico.
E ora parliamo di …E ora parliamo di Kevin. Film che nella sua complessità narrativa e nella sua difficoltà estetica convoglia tutto il disagio della visione e quindi della percezione. Una distorsione pari a quella vissuta da una sconvolgente Tilda Swinton, madre i cui segni del logorio psichico sono fin troppo evidenti già nella sua fisicità. Lo sguardo antinaturalistico con cui la regista Lynne Ramsay ci porta all’interno dell’incubo domestico, sproporziona i confini della percezione. Immagini che sono vere realtà sensibili, simbologie tra simbologie, suoni, rumori e corpi che si amalgamano in un complesso disegno, una geometria e una cronomia allucinanti che ci portano al centro dell’inferno.
Tutto questo coinvolge poi, su un altro livello, il contenuto del film, la sua storia sincronica – nonostante la struttura di confusione temporale – che va a infilarsi in un preciso filone cinematografico e pretende quindi, come tutte le creazioni artistiche, di poter dire qualcosa. E la sentenza è allarmante: non c’è motivo. Questo è il motivo, per dirla come Kevin. L’assenza di una motivazione. Non c’è una causa narrativa che preceda la conseguenza che tutti vediamo: l’insostenibile e commovente duello tra madre e figlio. C’è e basta. Non c’è un caso, un trauma, una sociopatia. E non c’è nemmeno la fecondazione diabolica come in Rosemary’s Baby per comprendere l’odio implacabile del piccolo Kevin verso sua madre. Il film ci narra soltanto una serie di eventi. Il parto doloroso, il costante pianto del neonato che non dà tregua alla madre, la straziante cattiveria gratuita del bambino, l’aperta sfida dell’adolescente – con punte di lascivia e qualche pruderia incestuosa o seduttiva, almeno nell’economia del progetto diabolico di Kevin. Non ci viene detto perché.
Questa è la grande differenza con la maggior parte dei film dedicati alla tematica. Ma anche nel confronto con il più acclamato tra i titoli più conosciuti, Elephant di Gus Van Sant – citato nel film dalla filastrocca sull’elefante che canta la neo-mamma al piccolo Kevin – notiamo che mentre l’autore di Louiseville nel trattare l’insondabilità del male, l’enigma del suo epicentro, la sua banalità, dà comunque una motivazione, apatica, senza segno, disarmante, ma ne dà una piccola indicazione. In seguito, nel mostrare il massacro, incrudelisce tale indicazione, e chiude il cerchio, il bellissimo cerchio, che è quel triste apologo sull’adolescenza che è Elephant. La Ramsay invece, né motiva narrativamente il conflitto tra madre e figlio, né mostra il massacro scolastico. Tutto resta fuori campo. Rapide inquadrature che tra l’altro non indugiano sui dettagli macabri. Sarebbe stato infatti troppo facile scadere nell’esibizione dell’orrore. Avrebbe vanificato tutto l’impianto dialettico del film. In queste differenze, pur essendo Elephant un capolavoro, il film della Ramsay gli è superiore.
E poi c’è lui. C’è il diavolo. Il wendigo. Il fantasma atavico americano. Lo spettro del popolo indiano che ancora inquieta la borghesia americana. C’è lui. C’è Ezra Miller. Nonostante non ci sia dato sapere se nel suo sangue scorra anche sangue indiano, i tratti somatici del giovane attore di Hoboken tradiscono un meticciato che, comunque sia, resta sempre uno dei grandi tabù del popolo WASP. Ma l’inquietante presenza di Ezra Miller è un’alchimia di sguardo, fisicità e carisma che ne fanno, non solo un grande attore, ma un corpo attorico preciso e disarmante. Il giovane corpo glabro, pelle e ossa, definito, nervoso, di quella magrezza adolescente che disarma; i capelli, il taglio degli occhi, quei pochi secondi in cui lo becchiamo masturbarsi. È il corpo che tutti vorrebbero, e per questo esercita un fascino che per il suo personaggio, Kevin, è fondamentale e azzeccato. Inoltre, se un attore non punta di più sulla sua fisicità – non parlo di bellezza né di fisico in sé, parlo di fisicità – invece che sull’introspezione e sull’immedesimazione, non sarà mai un vero attore e non riuscirà mai a catalizzare l’attenzione verso di sé e verso il suo gesto attorico. Ogni tentativo di concrezione di un pensiero e di un’immagine che fa un pensiero, passa per la cinesi del corpo e del suo linguaggio. Ecco perché esistono gli attori. Ecco perché esiste Ezra Miller.
PS: è un caso che la madre del diavolo Kevin si chiami Eva?
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