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...E ora parliamo di Kevin

Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film

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La recensione su ...E ora parliamo di Kevin

di (spopola) 1726792
8 stelle

Costruito tutto sugli incubi reali, sulle associazioni di pensiero, sui ricordi e le emozioni riportate a galla da un gesto, un movimento, una parola o da una pennellata di colore, è un film a incastri che ci costringe a seguire il doloroso percorso della protagonista fin dentro l’abisso in cui si trova relegata senza più alcuna via d’uscita.

E’m un affare complesso essere genitore… (...) e sulla relazione madre-figlio c’è ancora odore di tabù… forse è proprio uno degli ultimi tabù rimasti. Si suppone che tu debba amare tuo figlio dal primo momento in cui è nato, ma se non succede? Amo le dinamiche di genere e ho creduto che questa fosse una buona chance per ibridare il registro drammatico con l’horror psicologico. (…) Diciamo che mi sono posta molte domande sul tema della responsabilità quando ho deciso di affrontare l’argomento, e che il film rispecchia proprio questo interrogarsi: la pellicola pone infatti solo domande (e sono davvero tante), ma non possiede risposte… (Lynne Ramsay) né pretende di darle (questo l’ho aggiunto io).

 

Con uno stile frammentato di grandissima presa emotiva ma che mette davvero a dura prova (almeno all’inizio) lo spettatore, la scozzese Lynne Ramsay (al suo attivo opere altrettanto “difficili” e personali come Ratcatcher che la rivelò nel 1999 e l’inteso Morvern Callar del 2002) con questa pellicola prende davvero di petto, senza spiegazioni o psicologismi inopportuni, quello che è e resta uno degli ultimi tabù della cultura contemporanea, che riguarda appunto l’indisponibilità femminile ad accettare il ruolo di madre, anche quando poi alla fine si può dire che -  come in questo caso - viene assolto con scrupolosità e rigore oltre a una buona dose di abnegazione (addirittura ben oltre ogni umana sopportazione) insieme all’adempimento di tutti i “doveri” pratici anche di contenimento un po’ coercitivo degli eccessi, connessi a questa condizione.

Se si è disposti a seguire il doloroso percorso della protagonista fin dentro l’abisso di quel pozzo nero in ci si trova ormai relegata senza alcuna via d’uscita (io direi più propriamente “a trovare il coraggio” di farlo), si uscirà fuori alla fine della visione (come è accaduto a me) certamente con un disagio molto profondo e un angosciante stato di prostrazione, ma anche con una accresciuta consapevolezza di quali abissi profondi possano celarsi in un rapporto disturbato tra madre e figlio, al di là di ogni celebrato cliché sulla genitorialità (con particolare riferimento ovviamente al versante femminile) proprio perchè le famiglie (e le relazioni umane in generale) sono molto più variegate e complicate di quanto non appaiano in superficie o si sia disposti ad ammettere (è ancora la Ramsay ad affermarlo) e nulla può essere davvero dato per scontato.

E’ dunque un film a incastri questo …e ora parliamo di Kevin (o meglio We Need to Talk About Kevin, come recita con maggiore precisione lessicale il titolo originale, e dove proprio quel “need” riveste un ruolo fondamentale che la consueta approssimazione italica smarrisce un poco per la strada) costruito tutto sugli incubi reali, sulle associazioni di pensiero, i ricordi e le emozioni riportate a galla da un gesto, un movimento, una parola o addirittura da una pennellata o sbavatura di colore (è il rosso che giustamente domina la pellicola che si riverbera quasi in ogni scena ad anticipare fin dall’inizio il dramma e la tragedia). Credo però fermamente che sarebbe ancora più straordinario e destabilizzante l’approccio e la percezione progressiva delle cose, se si entrasse in sala totalmente digiuni di ogni anche remota informazione sui fatti che ci verranno poi narrati, cosa purtroppo quasi impossibile per la risonanza mediatica che si è data soprattutto a quel terribile evento traumatico che la regista ci fa apprendere invece in tutta la sua devastante portata – e non a caso - solo in prossimità della fine, una modalità quasi di “sospensione programmata” che nel suo lento ma inesorabile processo di disvelamento della verità, costringe lo spettatore ad acquisire ed appropriarsi - rendendoli così ancora più strazianti e terribili - dei tanti brandelli di sofferenza pieni di interrogativi con cui viene chiamato a confrontarsi e che passano implacabili sotto i suoi occhi di osservatore imparziale ma non neutrale, per lasciarlo però alla fine un po’ disorientato e senza alcuna plausibile “certezza” o “rassicurazione”anche quando il puzzle si è ormai interamente ricomposto ma restano pesanti zone d’ombra – quelle dalla psiche e delle motivazioni – che nessuno è qui chiamato a dissipare... perché alla fine di Kevin se ne parla davvero troppo poco (molto meno di quanto “bisognerebbe”  e dovremmo fare, almeno per tranquillizzare di più le nostre coscienze disturbate, come appunto quel need suggerirebbe per tentare almeno di mettere meglio a fuoco una psicologia un tantino deviata) anche se è chiaro che “qualcosa” non ha funzionato nella sua testa e nei rapporti con la madre, la famiglia, il mondo e la sua vita (a me ha fatto venire in mente un’altra vecchia pellicola che narrava i fatti di una bambina ugualmente mistificatrice ed assassina, quel “The Bad Seed - in Italia Il giglio nero - di Mervyn LeRoy che è del 1956 e che si concludeva – dati i tempi -  con un finale molto edulcorato alla maniera hollywoodiana e un messaggio riconciliativo ora assolutamente improponibile, visto che provava a suggerire una giustificazione comportamentale che troveremmo adesso sconcertante, quella che i criminali sono tali  per tare – o disfunzioni  - ereditarie e non perché influenzati dall’ambiente o dominati dalle proprie personali perverse inclinazioni, spostando così i fatti  verso il “caso clinico” definibile come l’ineluttabile conseguenza di una malformazione genetica).

Di Kevin invece in questo film ne sappiamo davvero molto poco: lui è solo la causa e l’effetto della tragedia, un’enigmatica figura quasi diabolica, ma della quale non saremo in grado di venirne a capo per comprenderne davvero le ragioni (non è a questo che tende la regista), perchè il centro nodale della storia è Eva, la madre, e il suo non essersi mai saputa rapportare davvero con quel figlio (fin da quando era nella sua pancia e non aveva forse nemmeno tanta voglia di farlo uscire fuori, come denotano le scene riservate al parto) in  questa indagine dentro i labirinti della psiche che dà spazio soprattutto ai suoi movimenti emotivi, ai suoi profondi sensi di colpa, allo strazio davvero inquantificabile della sofferenza, alla lotta fra il canone morale e il sentimento intimo (Giulio Sangiorgio) che sembrano spesso entrare in collisione.

Eva è infatti un’affermata scrittrice e viaggiatrice accanita, che ha messo al mondo quasi per forza (d’inerzia?) Kevin, per lei pressoché un alieno, un essere sadico e perverso che tormenta e “manipola” l’intera famiglia fin da quando è nato (l’insistenza di un pianto che non dà mai tregua alla spossata genitrice è un elemento decisamente rivelatore di una evidente “incompatibilità” quasi naturale). Indifferente e strafottente soprattutto verso la genitrice e animato da una sorta di istintivo superomismo, è già conflittuale si può dire fin dai primi vagiti. La sua avversione si amplifica nel tempo insieme alla sua età che - fattolo più adulto – lo porterà a nutrire e coltivare una sola passione “certa”, quella del tiro con l’arco, trasmessagli da un padre che è la persona davvero più coercibile in questa coppia, totalmente incapace com’è di vedere come stanno le cose e che cerca di tenere insieme la “famiglia ideale” (e anche un tantino idealizzata) in una bella villetta con giardino lasciando totalmente inascoltati i dubbi preoccupati della moglie.

Kevin gioca dunque con le frecce diventando sempre più abile a fare centro, ma come un Robin Hood al contrario, se la prenderà poi con i deboli - come ha sempre fatto nella sua esistenza  - rispettando all’inverso solamente i forti o coloro che sono più disponibili a fargli concessioni. Esprime certamente a sua volta probabilmente un disagio interiore ed una rabbia dei quali però il film non ci rende edotti - se non nel drammatico epilogo delle sue azioni - in un percorso quasi obbligato verso la dannazione dove il suo principale bersaglio, ma anche l’unica a sapergli davvero tenere testa, è proprio la madre che nel rapporto col figlio proprio per queste discrepanze percettive che avverte, per quel disprezzo fortemente ostentato nei suoi confronti -  si è sentita da subito inadeguata, incompresa (e forse anche un po’ “colpevole”), comunque prigioniera dell’unica relazione che non si può ragionevolmente spezzare qualunque cosa accada, come dovremo constatare anche noi nello straziato finale, dove ancora una volta tutto è filtrato attraverso i suoi occhi e lo smarrimento e il dolore  annegano nel nulla desolato del suo sguardo.

Non volevo mostrare il massacro (ha affermato ancora la regista), e non solo perché non volessi filmare  qualcosa di così terribilmente violento. In effetti è stata mia cura preservare il punto di vista della madre, che appunto poteva solo immaginare la scena e così ho fatto, anche se questo non la rende meno impattante e dolorosa. E per quanto riguarda la violenza di Kevin, ebbene se è vero che non c’è una spiegazione, credo che possa però essere utilmente comparata alla violenza del mondo. Una violenza che ci circonda, che riguarda tutti, ma che ci rifiutiamo di guardare, mettendo la testa sotto la sabbia.

E in effetti, al di là dell’esposizione di una tematica profondamente femminile come quella  che riguarda il rapporto fra la donna e la maternità, tra gestione “naturale” dell’amore filiale e messa alla prova “intellettuale” dei suoi limiti (Filippo Mazzarella) sono proprio le dichiarazioni della Ramsay a confermare la sua volontà di renderci in parallelo la metafora di un mondo che è incapace di comprendere il senso e le ragioni di tutto questo “male” che ci circonda al quale, come del resto al gesto di Kevin, è impossibile dare una spiegazione, e le domande gli interrogativi che si pone Eva, sono di conseguenza rivolti anche a noi spettatori invitati a nostra volta a interrogarci su “come abbiamo fatto a non vedere” (Rototom) 

 

Eva non è una buona né una cattiva madre, ma una donna piena di sfumature”  ha dichiarato Tilda Swinton rispondendo ad alcune domande postele sulla Croisette da chi probabilmente tentava di rassicurarsi schematizzando un po’ troppo le cose nel provare a “sposare” la tesi invero semplicistica, per cui a una cattiva madre corrisponderebbe sempre un pessimo figlio, punto e basta. Una risposta adeguata e giusta, quella dell’attrice,  per riportare invece le cose all’essenza profonda di una storia ben più articolata che potrebbe indubbiamente avere anche su questo assioma una chiave possibile di lettura, ma che diventerebbe indubbiamente la traccia più scivolosa ed anche la più incerta, poichè qui nulla viene di fatto imputato ai genitori del ragazzo, madre compresa. Il tessuto complessivo è infatti molto più denso e profondo ed è su questo che la regista costruisce un percorso a ostacoli fatto di assonanze e di “similitudini”, come si è visto, e dove per districarsi davvero fra i continui sbalzi temporali e le interruzioni frammentate del racconto, all’inizio abbiamo soltanto a disposizione, oltre ai tanti “perché?” senza risposta, il diverso taglio (e lunghezza) dei capelli e la grande differenza degli ambienti in cui si muove (e vive) la donna: ora nella agiata villetta con giardino di famiglia, ora in una casa molto più modesta e angusta dove sembra essere perseguitata dall’odio e le vessazioni dell’intera comunità  per un qualcosa che ancora ci sfugge ma che pian piano si palesa in tutta la sua progressiva e terribile portata drammaticamente destabilizzante: lo stesso dolore derivante da quell’evidente senso di colpa che viene poi riversato con impietosa brutalità anche su chi guarda dalla sala.

Depressa e ormai completamente sola al mondo, Eva, “la prima donna” (non credo che sia un caso che si chiami  proprio così) sembra davvero essere diventata l’ultima sopravvissuta di una catastrofe nucleare che si è abbattuta sul suo mondo e sul suo corpo, una mater dolorosa ormai senza speranza e senza redenzione definitivamente perduta nel suo inferno (vedi la risposta piena di tragica consapevolezza che dà ai due predicatori che bussano alla sua porta), e in qualche modo è davvero e da subito così, anche se per buona parte del film non riusciamo bene a capire (pur avendo già letto molto dei fatti) cosa le sia davvero accaduto e come si dovranno mettere in fila e cucire fra loro i vari pezzi del mosaico. E’ da subito chiaro comunque che è il rapporto fra Kevin e la madre ad essere centrale. Più che intuirlo, lo percepiamo sempre più chiaramente proprio attraverso i flashback in cui vediamo ripercorsa a spezzoni l’infanzia e la prima giovinezza di quel marmocchio insopportabile di poche parole ma dalla lingua  troppo tagliente e spesso ferocemente inopportuno che si macchia di molte gratuite crudeltà (verso il criceto e la sorella oltre che nei confronti della donna).

Adolescenti e ultraviolenza psicopatica apparentemente immotivata dunque, e di conseguenza inconcepibile (e inaccettabile) nella sua efferatezza che sembrerebbe quasi voler spostare il discorso dalle parti di Moore (Bowling a Columbine) o ancor meglio di Gus Van Sant (il fantasma del suo Elephant irrompe con prepotenza a un certo punto, visto che anche qui è proprio un sanguinoso, assurdo e gratuito atto di violenza ad essere il fulcro drammatico della vicenda). Bisogna però riconoscere alla Ramsay, la straordinaria capacità di aver saputo schivare il pericolo grazie alla notevole originalità del suo sguardo non solo  per quel che riguarda l’inusuale struttura della messa in scena ma anche per lo straordinario contrappunto musicale (opera di Jonny Greenwod) a sua volta spesso spiazzante con quel suo avvolgere le sequenze – anche le più terribili - in una complessa costruzione sonora spesso dissonante che ha quasi la funzione di anestetizzare un poco non solo la disperazione e il dolore, ma anche la rabbia e quel continuo interrogarsi della donna, così da far percepire il tutto al pubblico in maniera più asettica e meno viscerale, rendendolo così più sopportabile nonostante la cupezza assoluta dell’insieme, elementi entrambi importanti – quasi fondamentali - che aiutano a spostare davvero il tutto in un diverso terreno e dimensione rispetto ai fatti “nudi e crudi”, tanto che si può dire davvero che la regista non emula proprio nulla di nessuno dei suoi due più famosi colleghi e delle loro opere così fondamentali sull’argomento delle stragi immotivate, perché la portata del dramma è qui tutta spostata e concentrata sulle spalle di Eva e sulla sua “sventura” di essere madre e di aver generato un mostro, resa magnificamente da una strepitosa Swinton, interprete davvero di calibro superiore, capace di trasformare ogni gesto in un atto di dolore, presente praticamente in ogni scena con la sua fisicità inconfondibile e carismatica, col suo sguardo freddo quasi scostante, con il peso delle “responsabilità” che diventano colpe che la stanno annientando e ne fanno una figura dalla statura quasi epica  che non  cerca la commiserazione, né tantomeno la simpatia  (o peggio ancora l’assoluzione) dello spettatore, ma vaga piuttosto nel vuoto pneumatico che ormai la circonda. Una superba prova la sua che avrebbe meritato maggiore attenzione anche da parte dell’Accademy… la vera, incontestabile punta di diamante di un cast comunque eccellente, dove le tiene bene testa anche l’ottimo, inquietante Ezra Miller (il Kevin adulto) Non gli sono però da meno i due bambini  che lo incarnano nelle sue precedenti fasce di età (soprattutto quello davvero eccezionale della fase intermedia).  Più sfumata del solito invece, la prova di John C. Relly (il padre del bambino): lui è ottimo come sempre, è solo il personaggio che gli offre poche occasioni per mettere in evidenza le sue doti istrioniche, e dunque è soprattutto la sua parte ad essere un poco sottotono, non l’attore. 

Non ho letto il romanzo di Lionel Shiver su cui si basa il film e mi è di conseguenza impossibile fare un raffronto e una valutazione, ma la sceneggiatura “tutta in sottrazione” (della stessa Ramsay)  è davvero eccellente e denota un profondo lavoro introspettivo proprio nella costruzione narrativa  dei raccordi (il lavoro di preparazione è durato ben 4 anni, ma i positivi risultati sono ben tangibili).

Fra i produttori di questa pellicola che può suscitare sensazioni anche contrastanti, oltre la stessa Tilda Swinton che ha fortemente voluto il film e il ruolo, troviamo anche Steven Soderbergh (e va a suo merito essersi cimentato nel sostegno economico di un’opera così “impopolare” che avrebbe spaventato i più).

La circolarità del male, alla fine crea disperazione  ho letto da qualche parte (ma non ricordo dove). Una frase che in ogni caso condivido pienamente e “provo” a fare  mia chiedendo scusa per questa indebita appropriazione,  perché è davvero così che vanno le cose nel film, ed è alla fine proprio questa “disperazione” profonda che arriva allo spettatore, insieme allo strazio dell’anima e ai moti interni e profondi del dolore di un’opera che non vuol fornire spiegazioni, ma solo “dubbi”… perché (lo dice ancora Sangiorgio)  …e ora parliamo di Kevindà forma a quello che le parole non dicono, tanto che in questa straordinaria pellicola che corteggia Lacan e Maya Deren, davvero: (…) ogni gesto di Tilda Swinton umilia interi trattati di psicologia.

 

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