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Miracolo a Le Havre

Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film

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La recensione su Miracolo a Le Havre

di FilmTv Rivista
8 stelle

Da Parigi a Le Havre: Marcel Marx non fa più Vita da bohème, ma il lustrascarpe nelle vicinanze del primo porto francese per traffico di container. Al focolare Arletty l’attende, moglie premurosa che accudisce un marito bambino, invecchiato, mai cresciuto. Due eventi cambiano il corso delle cose: lei si ammala gravemente, lui incontra un giovanissimo clandestino diretto a Londra, ricercato dalla polizia. «I miracoli, a volte, accadono» rincuora il medico. «Non nel mio quartiere» risponde placida e laconica la donna. Sbagliandosi. Kaurismäki – colui che ha dedicato trilogie a proletari e perdenti – rappresenta i margini del mondo, con piglio brechtiano e surreale: non c’è naturalismo nel suo sguardo, sadico compiacimento o monito alla compassione, ma il filtro di un cinema ostinato, che riduce il reale a quadri da bande dessinée, stilizza un quartiere in un microcosmo dove vige nobile e gentile il mutuo soccorso, riabilita ideali scomparsi, fa dell’amore materia cocciutamente romantica. Parte dalla realtà dei giorni nostri, Kaurismäki. E la trasforma in una lirica popolare e astratta. Marcel Marx ha il nome di Carné, il cognome di Karl. Realismo poetico (Arletty è il nome della diva di quel periodo) e dialettica, perché il cinema non è la realtà, ma aiuta a comprenderla. Invertendola di segno, stampandone unicamente i positivi. Kaurismäki sposa Chaplin a De Sica, Tati a Bresson, Pagnol a Dreyer, sviluppa un’economia narrativa che ha De Oliveira come unico eguale, giura amore al cinema del Fronte Popolare, irride (tramite l’infame Léaud) gli snobismi della Nouvelle Vague. E questo miracolo d’estetica – in cui sottrarre non significa semplificare, in cui i dettagli dicono di un mondo – si fa opera etica e politica: Aki Kaurismäki non lava le coscienze, non permette l’indignazione usa e getta, non aderisce al dolore della verità. Ma ci invita a confrontarci con una bellissima bugia. «Ero già disincantato di fronte a molte cose fin dall’età di dieci anni, ma allora cercavo di fingere in modo da poter dare speranza agli altri». E mentre i lieto fine si affastellano inverosimili, un ciliegio in fiore richiama Ozu ai nostri occhi, che piangono lacrime sincere: perché è quell’eccesso di Grazia a ricordare alla favola d’essere una semplice e meravigliosa illusione.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 47 del 2011

Autore: Giulio Sangiorgio

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