Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Nell’affrontare il tema centrale dell’immigrazione, il regista non si pone nemmeno per un istante la questione di ciò che è politicamente corretto: giudica semplicemente ignobile qualsiasi legge o sistema che impedisca a un figlio di ricongiungersi con la propria madre. Una grande lezione di cinema che parla di solidarietà e condivisione.
Ogni altra scienza è dannosa a chi non ha la scienza della bontà (Michel De Montaigne)
Il tema dei migranti e della loro clandestinità: di questo tratta l’ultimo capolavoro di Aki Kaurismäki, una volta tanto illuminato da uno sguardo più aperto alla speranza rispetto al suo passato, e un approccio che lo spinge in un percorso narrativo abbastanza inusuale, che è quello di un racconto che si fa “fiaba morale” - tutt’altro che astratta e fuori dal contesto però - perché è attraverso quella che riesce a descrivere mirabilmente la realtà per ciò che effettivamente è, e quindi con tutte le brutture e le storture che la contraddistinguono, aggiungendo comunque come valore aggiunto, la forza di un “riscatto” finale grazie alla mobilitazione condivisa di una collettività umanamente partecipativa che ha ritrovato le sue radici e recuporato il valore della solidarietà.
Mischiando fra loro ispirazioni differenti e ponendo una particolare cura nei dettagli qui significativamente cruciali (a partire dai nomi e dall’abbigliamento, come vedremo in seguito), il regista con il suo immutato stile cristallino e personale (riconoscibilissimo) illumina magistralmente una parabola umanista che ha giustamente reso palpitante il cuore del pubblico, a partire dalla sua presentazione a Cannes (dove però una giuria decisamente miope non ha voluto riconoscerne i meriti e lo ha colpevolmente tenuto fuori dai palmarès, non assegnandogli alcun premio che invece avrebbe ampiamente meritato). Pazienza, accade spesso e ormai dovremmo averci fatto il callo sul pressappochismo congenito di chi è chiamato a esprimere verdetti, soprattutto quando la sovrabbondanza di opere eccellenti come è avvenuto (e per fortuna) nella manifestazione festivaliera della Croisette di quell’anno, obbliga necessariamente a fare delle scelte e qualcuno, anche fra i migliori, può correre davvero il rischio di rimanere (ingiustamente) a bocca asciutta, come appunto è successo in questo caso. Questo comunque non lede minimamente il senso ed il valore di un’opera magnifica come Le Havre, titolo originale che a mio avviso avrebbe dovuto conservare anche per l’Italia, poiché quella parola aggiunta (miracolo) è una specie di spoiler (spero involontario, ma non ne sono certo) che sarebbe stato meglio evitare.
Un film importante, bellissimo e persino “necessario” insomma, che ha segnato il trionfale ritorno anche sui nostri schermi di un autore che ha contribuito come pochi altri a mantenere alta la bandiera del cinema di qualità, e che ci ha fatto dono di un’altra opera immensa che con un calore inedito e molto coinvolgente, trascende la freddezza dei luoghi e l’amarezza di esistenze ai margini, come a volerci suggerire che non si deve mai smarrire la speranza, e con questa, la carità e… finanche la fede, perchè le cose giuste non posso aspettare (pretendono anzi di essere fatte ora, subito, senza cincischiamenti o tentennamenti e tantomeno provare ad accampare scuse), poiché il tempo che viviamo ha valore (e soprattutto un senso) soltanto se viene utilizzato mantenendo viva la febbrile disponibilità all’agire, ovviamente nel rispetto di una semplice e fondamentale legge morale – quella della fratellanza - che non dovrebbe mai essere disattesa nè tradita.
Il cinema come ben sappiamo, è nato muto, fermo ed essenziale, quasi spartano nella sua linearità formale. Raccontare e trasmettere qualcosa con la sola inquadratura, senza l’ausilio della parola (non ancora disponibile per lo schermo) ed evitando all’inizio persino i movimenti della macchina da presa, significava veicolare allo spettatore un sentimento e una visione del modo senza il filtro di una “costruita” messa in scena e il ricorso a troppe sovrastrutture e manipolazioni, e di conseguenza fornire una “proiezione” più profondamente empatica delle cose, diretta e immediata e, soprattutto priva di “equivoci” e di false (o fallaci) alterazioni interpretative.
Una visione francescana che si ritrova spesso anche nella classicità del cinema d’autore degli anni successivi (nonostante le inventive novità che venivano giustamente introdotte per rinnovare un poco la narrazione come il parlato, il colore, i movimenti della macchina da presa, il montaggio, etc.) per altro mutuata (e filtrata) con un debito diretto verso le strutture del romanzo borghese dell’ottocento (perpetuatesi anche ben oltre la prima metà del novecento) e che – almeno per ciò che riguarda il cinema - solo il respiro poetico della novelle vague era riuscito (e con pieno successo) a mettere definitivamente in discussione (e scardinare) con le sue composizioni libere e fuori da ogni sintassi acclarata della forma (che a suo modo e sia pure in una differente e nuova prospettiva di innovazione, movimento e provocazione, restava però ancora molto rigorosa) creando così un pandemonio “rivoluzionario” che ha influenzato irreversibilmente il modo di fare “esposizione visiva” in tutto il mondo. E’ stata però a mio avviso la successiva contaminazione più estremizzata operata dal postmodernismo a prendere alla fine il sopravvento, spesso a scapito di ogni altro tipo di espressione, e a decretare la definitiva frantumazione dei ritmi e della costruzione, con la conseguenza di far diventare quasi arcaica (cinematograficamente parlando) quella sintesi originaria (e organica) di sguardo, racconto, pensiero e rappresentazione, ormai non più à la page, come si suol dire (e di conseguenza sempre meno frequentata).
Nel presente (e con il decollare del terzo millennio) il gusto mutato degli spettatori e le esigenze economiche della produzione, hanno poi fatto il resto, traghettato il cinema in una dimensione più “tecnologica” (che spero transitoria) e meno sostanziale, che si poggia su una complessità strutturale molto elaborata e vive soprattutto di accumulazione (anche visiva), grazie al ricorso di sempre più strabilianti effetti speciali messi a disposizione dal progresso (quasi sempre però a discapito dei contenuti). Difficile dunque sfuggire alla tentazione di conformarsi alle correnti del mercato (soprattutto da parte dei produttori sempre così attenti al business) ma non del tutto impossibile però, poiché si possono ancora trovare fra le pieghe del sistema, nelle nicchie e negli anfratti, dei meravigliosi prodotti impregnati d’antico, così rari e straordinari nella loro dichiarata ed accorata trasparenza, da sembrare dei preziosi reperti sfuggiti alla furia del tempo e all’incuria dell’uomo, ed è proprio in questa categoria di “ pregiata archeologia moderna” che si colloca quest’ultima fatica di Kaurismäki, un’opera che come in un’ottocentesca prise de vue documentaire, detta e risolve con poche inquadrature e altrettanti più che limitati “svolazzi” formali, il senso generoso della narrazione (…) utilizzando uno scenario urbano che rinvia alla complessità del mondo contemporaneo (Luciano Barisone), vivificata per altro dal pennello e dalla variegata tavolozza dalle classiche e calde gradazioni pastello che rendono “smagliante” e davvero unica la sua cinematografia, da quando anche il colore è entrato a far parte di una poetica narrativa molto speciale e da cui ormai è impossibile prescindere.
Recuperando così un lessico tipico degli anni quaranta (con particolare riferimento a quel cinema che si era confrontato con il tema della guerra) il regista introduce una prospettiva inedita proprio nel raccontare la questione dell’immigrazione illegale, qui messa in scena con estrema delicatezza e un ribaltamento totale delle abituali prospettive, restando però sempre dentro una narrazione che non trascende dall’apologo.
Lacrime tra gli spettatori dunque (anche di gioia, però), e un sorriso disteso sul volto del regista, vero e proprio “amico ritrovato” per i cinefili di tutte le latitudini (e differenti gradazioni di interesse).
In questa pellicola dal sapore “antico” (tornerà sovente questo aggettivo), ma per più di un verso persino “innovativa”, Kaurismäki utilizza ancora una volta tutti quegli ingredienti che formano la materia pulsante di un percorso artistico di eccezionale rilevanza e originalità creativa (cantante rockabilly e cagnetta Laika inclusi) e che si identificano in quelle struggenti e personalissime atmosfere stralunate che ci sono diventate familiari, e in quella mescolanza fortemente empatica di vite stentate e al limite (quasi stremate si potrebbe dire) impastate però con una buona dose di ottimismo condito in salsa agrodolce (ma tutt’altro che zuccheroso, è bene ribadirlo).
Ed è davvero straordinario vedere come il regista riesce a muoversi con immutata disinvoltura dentro e fuori a una ragnatela di riferimenti anche intertestuali, non solo continuando a mantenere intatto il suo acuto sguardo sul reale nonostante l’insolita densità delle attinenze, ma anche nel provare ad ipotizzare (almeno per una volta) una soluzione alternativa e in controtendenza rispetto per esempio alle atmosfere e al pessimismo di fondo espresso negli anni ottanta (e conseguenti) su analoghi temi “socialmente sensibili”, soprattutto con la sua “trilogia dei perdenti”: qui infatti non ci sono perdenti, e ad essere sconfitto semmai è solo il potere repressivo che si accanisce contro gli immigrati nel tentativo di scaricare su di loro frustrazioni e distorsioni mentali finalizzate a farli diventare il vero capro espiatorio di un disadattamento più generalizzato che ha altre radici (ben più profonde e tutte “nazionali”).
La trasferta francese e l’ambientazione nella città portuale del titolo, vuole ovviamente essere un esplicito omaggio a Carnè e al suo “realismo poetico” ed esistenziale, Il porto delle nebbie in testa, rivisitato però con inconsueto calore, profonda partecipazione e prospettive inedite. Non c’è solo quello però, perché se proviamo davvero ad analizzare in profondità questo suo ultimo lavoro, ci troveremo sicuramente dentro per esempio, anche molti riferimenti “ispirativi” derivanti da Capra, tutti perfettamente funzionali e al servizio della fluidità sognante del racconto, totalmente sfrondati come sono da ogni pur minimo residuo di enfasi e di eccesso anche “sentimentale” di melassa.
Si potrebbe dire allora, citando Federico Pedroni, che il film racconta una parabola solidale senza il peso della metafora ma con uno sconfinato amore per i personaggi e molte citazioni impregnate di rispettosi ed entusiasmanti riferimenti soprattutto cinefili (importanti, voluti e necessari) a partire dai nomi dei personaggi e dai loro “mestieri” (il cognome Marx, tanto per entrare nel concreto, è ovviamente tutt’altro che casuale, e dovrebbe da solo suggerire molte, cose perché di nascosto e nell’ombra, a tramare alla fine è sempre il Capitale e questo non dovrebbe mai essere dimenticato) in un percorso dove (e lo ribadisco di nuovo), la solidarietà (che il mondo reale sembra aver smarrito) e un non trascurabile aiuto della provvidenza, traghettano lo spettatore con molta grazia e altrettanta nonchalance, verso una conclusione che possiamo definire “lieta” senza tema di smentita, non fosse altro che per il senso di umanità, di condivisione e di comunanza, che la piccola e disgraziata collettività portuale esprime, e che in tempi di forte decadenza morale e di crisi (dei valori, prima ancora che economica) è una merce rara e pregiata e poco commerciabile.
Come ho già accennato sopra, la storia ha per sfondo geografico Le Havre, la città francese sulla Manica che fu ricostruita nel dopoguerra con l’intento di farne un modello di sviluppo urbanistico che avrebbe dovuto avvicinarla a quella che si potrebbe definire la culla di una società ideale fondata sui valori della vita. A creare una sospensione che diventa quasi un corto circuito temporale, ci pensano però magistralmente le scenografie e i luoghi scelti per l’ambientazione della vicenda: una città di mare dove le impalcature delle gru non determinano un senso di contemporaneità pressante, ma sfumano invece il passare del tempo in un paesaggio che sembra non solo anacronistico, ma anche immutabile. Cinquant’anni dopo infatti, con il mutare dei tempi e delle condizioni, sappiamo che invece nella realtà rimane soltanto da constatare – ed ammette con infinita tristezza - che adesso va persino molto peggio persino di allora (e parlo dell’immediato dopoguerra!), perché la variegata società che la abita è adesso più che mai chiusa nei propri personali egoismi che la rendono tutt’altro che altruista, come ce lo ha raccontato benissimo e con piena aderenza, un’altra pellicola contemporanea a questa, altrettanto intensa ma più amaramente calata nell’attualità, come Welcome , che ci propone invece la disumanità di una città dove si fronteggiano carità e paura ingaggiate in una quotidiana battaglia che spesso vede però vittoriosa la seconda (ma per rimanere dalle parti di casa nostra, basterebbe pensare ad opere altrettanto disperate e amare come Là-bas, Terraferma o Io sono lì).
Lo stile senza tempo di Kaurismäki è lo stesso di sempre, così come lo sono i dialoghi rarefatti sui quali prevalgono sempre la spontanea semplicità di gesti e sguardi che riempiono gli spazi e le emozioni, concentrati su azioni e pratiche quotidiane, ma quasi trasfigurate, che possono arrivare qui a segnare la vita (e persino a cambiarla) e il risultato, come al solito, è fortemente empatico. A una simile riuscita, concorrono due elementi non nuovi nel suo cinema: l’economia dei dialoghi a cui ho già accennato, e il lavoro sugli attori (memorabili sono le scene fatte di lunghi silenzi fra quei classici personaggi kaurimaskiani dagli occhi acquosi costretti in tristi ambienti socialmente degradati, per le quali da qualcuno e inappropriatamente, il regista è stato anche tacciato di incomunicabilità). Qui – forse per la prima volta - viene fuori però pure la sua abilità di dialoghista, perché il film è una pellicola nella quale proprio le parole hanno un peso specifico molto grande, poichè sono le battute (secche ed essenziali) ad “inchiodare” e incorniciare ogni personaggio nel suo ruolo, ed è proprio a loro che è affidato il compito di definire una determinata azione con il necessario humor. E’ comunque soprattutto l’ambientazione nella Francia portuale a fare la differenza e a diventare il principale tramite narrativo che conferisce alla pellicola le tonalità e il respiro del “cinema classico di una volta” a cui accennavo prima: oltre a Capra e Carnè (quest’ultimo massicciamente presente addirittura nell’onomastica dei personaggi, visto che il protagonista si chiama appunto Marcel come il regista, e sua moglie ha il nome di Arletty come quello dell’interprete de Les enfants du paradis [Amanti perdutiper l’Italia] e di Alba tragica, del quale ribalta però in positivo la sfiducia e lo sconforto esistenziale perché lo straordinario André Wilms non è ovviamente Jean Gabin, così come la fedele Kati Outinen è tutta un’altra cosa rispetto ad Arletty o a Michèle Morgan), qui, oltre ai soliti numi tutelari come Ozu, Buñuel e Bresson (a cui si accosta la morale del film nonostante il registro da fiaba scanzonata) si trovano tracce che costeggiano e sfiorano non solo il De Sica di Miracolo a Milano, ma pure il cinema di Becker e Tati, di Melville e Clair (anche se il regista si tiene comunque e giustamente, sempre molto lontano dal citazionismo fine a se stesso).
Persino l’abbigliamento dei personaggi è molto emblematico: tutti vestiti con la stessa foggia per l’intera durata della pellicola, in forme e modi che non solo li distinguono, ma anche e soprattutto li definiscono. Le consunte giacche portate da Marcel con indifferente eleganza, narrano infatti da sole e senza bisogno di altri riferimenti “certi”, tutta la sua storia e il suo passato, mentre la divisa con i guanti neri dell’altrettanto magnifica figura del poliziotto Monet, suggerisce senza possibilità di alcun equivoco. l’attitudine e l’inquietudine solo apparente di chi – come lui - serve la legge con umiltà e non per tornaconto.
Il protagonista di quest’opera fuori dal tempo e dalle logiche barbariche della contemporaneità, è un lustrascarpe che lavora alla stazione senza riuscire a racimolare granché nell’epoca delle sneaker che non abbisognano di alcuna lucidatura, un uomo anacronistico e cocciuto che vive con la moglie Arletty, affezionata e comprensiva a tal punto, da non rivelare al marito di avere un male incurabile che le lascia davvero poco da vivere.
Un giorno si scopre che un container lasciato sulla banchina del porto è popolato da una colonia di cittadini africani in fuga. Uno di loro, il ragazzo Idrissa, sfugge alla cattura dei poliziotti e alla conseguente riconsegna ad un centro di permanenza temporanea (sappiamo quale inferno provvisorio in attesa di un inevitabile rimpatrio rappresentino quei posti, veri e propri lager di cui dovremmo tutti vergognarci), dove – si apprende dalla Tv – è scoppiata una rivolta (che ci riportadi nuovo come parallelo alle italiche vicende e ai casi di cronaca che hanno funestato la storia recente di un paese come il nostro che ha dimenticato il suo passato).
Il ragazzo ha trovato momentaneo riparo proprio nella modesta abitazione della coppia umile ma onesta che – aiutata dalla piccola comunità popolare dell’angiporto - lo difende e lo nasconde. A dare la caccia al ragazzo e a tormentare Marcel, è appunto l’”inflessibile” ispettore Monet (l’integerrimo servitore della legge che ha però anche un cuore, come scopriremo alla fine: implacabile nell’arrestare i criminali insomma, ma generoso con gli indifesi).
A un certo punto, le cose sembrano mettersi male per tutti, perché il ragazzo ha bisogno di denaro per un passaggio clandestino che lo possa traghettare sull’opposta sponda inglese, ma né le risorse, né tantomeno la salute (che in Arletty sembra declinare inesorabilmente) sono sufficienti da sole a preservarlo, e allora… (ma fermiamoci qui, per non svelare troppo e andare persino più oltre a quello che l’incauto titolo italiano già suggerisce, e sciupare così definitivamente il gusto della visione nello spettatore).
Tornando alla pellicola, non è piaggeria affermare che il regista ha fatto quello che ogni cineasta degno di tale nome dovrebbe sempre fare: registrare e sintetizzare con esemplare semplicità di dialoghi e gesti, la dialettica in atto in una società che sarà sempre più multirazziale e con la quale, volenti o nolenti, dovremo per forza fare i conti, e li dovremo necessariamente fare con una visione molto più umana delle cose e soprattutto priva di pregiudizi e di luoghi comuni sempre troppo abusati come invece accade adesso.
Per comprendere meglio ciò che intendo dire, basta analizzare la scena in cui le truppe speciali della polizia aprono il container rifugio degli immigrati. Quegli uomini e quelle donne giungono dal lontano Sud della terra, e per tanto tempo hanno vissuto in cattività dentro quello spazio asfittico di metallo buio e malsano: un qualsiasi regista alla ricerca dell’effetto, avrebbe privilegiato il naturalismo feroce della pietà e del disgusto, mostrando corpi quasi regrediti allo stato animale della sopravvivenza. Kaurismäki lo fa invece mostrandoci un “quieto” ritratto di famiglia che si presenta frontalmente alla macchina da presa,come in una composizione pittorica del XIX secolo (Luciano Barisone) che ci trasmette un forte senso di “calore” e di “fratellanza”.
E’ questa sintesi di pulizia formale e scarna dialettica che si nutre però di immagini così significative, di fulminanti battute e dei muti sguardi dei suoi formidabili interpreti, che fa acquisire allo spettatore una più specifica e “umana” conoscenza del mondo, e recuperare di conseguenza anche la coscienza di chi può così riflettere, sia pure col sorriso sulle labbra, sulle ingiustizie della nostra civiltà, e questo proprio perché ogni tassello del film è piazzato al posto giusto e non ha niente di ricercato o superfluo.
Merito anche dei colori netti e delle scenografie spoglie ed essenziali, che sono le stesse di sempre, esattamente come gli attori, con in pole position André Wilms (già visto in Juha e Vita da Bohèmeda cui ha traghettato pure il nome, titolo con cui il regista mantiene anche un altro punto di contatto con la presenza nelle vesti del malvagio delatore, diJean-Pierre Léaud feticcio assoluto proprio di quella nouvelle vague che ha “assassinato” il cinema al quale Kaurismäki sembra guardare – e la garbata ironia è evidente - che indossa un impermeabile un po’ fuori moda, lontano da ogni connotazione temporale che fa molto personaggio da noir anni ’40, ed è perfetto nel disegnare con tenera ed arruffata pervicacia, un “banalità del male” decisamente stilizzata destinata a fallire, come in ogni fiaba che si rispetti, che si tramuta qui in una gag serissima, ma narrata con irreale levità).
Non poteva ovviamente mancare nemmeno Kati Outinen (che potremmo definire l’anima stessa del suo cinema) dall’inconfondibile accento finnico (per chi ha avuto la fortuna e il privilegio di vedere il film in lingua originale). C’è però anche un nuovo ingresso questa volta, e si tratta di quella dell’altrettanto grande Jean-Pierre Darroussin, sodale del cinema di Guédiguian che, nelle vesti dell’Ispettore Monet (un personaggio altrettanto dolente e problematico, tenacemente attaccato alla propria missione che guarda direttamente a Melville) si amalgama alla perfezione, come se lo avesse sempre frequentato quel cinema.
Le musiche e le canzoni in un contesto prevalentemente “silenzioso”, riguardano poi direttamente Little Bob (al secolo Roberto Piazza) – una figura che pur più marginale, resta profondamente incisa nella memoria - il cui ingresso in campo imprime alla pellicola un senso ancor più
scanzonato, e definisce una svolta importante nella storia.
Si può dire allora proprio per concludere, che la consueta pulizia delle immagini espressa con il suo abituale gusto minimalista (ma non per questo meno palpitante), diventa l’esplicitazione (e la conferma) di uno stile rigoroso costruito su inquadrature fisse e pochi, essenziali movimenti di macchina, che unito alla semplicità della progressione narrativa spogliata di inutili sdolcinatezze e smancerie, sono i principali elementi che danno spessore a un modo di approcciarsi alle cose tutto in sottrazione tipico del regista. Rimane di conseguenza centrale e in primo piano il lavoro della cinepresa (straordinaria porta d’ingresso capace da sola di stimolare nello spettatore un ideale stato d’animo di compartecipazione emotiva diretta ed assoluta). E’ attraverso di essa infatti che il trattamento degli spazi diventa – nel corso delle sue mutazioni anche di ripresa - conseguente al raggiungimento dell’obiettivo: le traiettorie chiuse del protagonista della prima parte (casa-bar) subiscono infatti importanti variazioni aprendosi poi a molti ambienti che – come in una staffetta – portano il nostro “eroe” a mettersi in contatto con persone diverse e a creare solidi rapporti con e fra di loro. Ed forse proprio qui che accade quel miracolo cui fa riferimento il titolo italiano (che non riguarda ovviamente solo il problema della malattia della moglie) che si compie nei vicoli sconnessi di un’umanità che ha finalmente ritrovato se stessa, in maniera non tanto diversa da quel ciliegio in fiore che lo sintetizza – dichiarato omaggio al cinema giapponese – con cui si chiude questo toccante racconto dei giorni nostri narrato in lingua antica che prova (e ci riesce) a trasformare la sua profonda malinconia di fondo in un soffio di gioiosa speranza.
Un’opera insomma che si apre su un individuo solo in lotta contro il mondo, e si conclude con l’impresa di una comunità mobilitata in nome di un ragazzino piovuto dal nulla, che si (ri)unisce per sottrarlo alle grinfie della legge, dove non si cerca mai la lacrima facile (né ci si fa ricorso) o il sentimentalismo ad ogni costo, ma al contrario, si prova ad ammorbidire la preoccupazione del fare, dell’essere attivamente utili, di organizzare qualcosa di concreto, anche semplicemente con il parlare e comunicare, il riconoscersi, o persino con l’ubriacarsi di musica e di vino, o addirittura nel donare un gesto solidale e una soluzione.
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