Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Con questo film, Kaurismaki diventa ufficialmente il principale (anzi unico) erede a distanza dell’immenso Charlie Chaplin. Tutto, in “Miracolo a Le Havre”, rimanda al grande Maestro: lo sguardo carico di malinconia ed indignazione; la tenue armonia fra gentile umorismo ed asciutta tenerezza; le laconiche inquadrature frontali degli attori, fra magone trattenuto e dignitosa sopportazione; la compenetrazione di idealismo romantico e senso della realtà.. E’ quest’ultimo elemento, in particolare, a definire la cifra stilistica, nonché l’approccio morale, di Kaurismaki: la capacità di far passare, come dei fulmini a ciel sereno eppure senza retoriche sottolineature, squarci di drammatica realtà (il telegiornale che riporta la notizia dello sgombero di un accampamento clandestino; il dolore di una malattia incurabile; la miseria di una vita di stenti; l’arroganza dei ricchi, dei privilegiati, delle istituzioni) in un immaginario di per sé idealizzato (la bizzarra “fauna” da bar; la pittoresca rock-star anziana; il fruttivendolo col carretto; le case popolari color pastello). Non è ipocrisia, piuttosto il contrario. E’ la fiducia nel potere affabulatorio ed immaginifico della Settima Arte di (far) comprendere la realtà attraverso il filtro della poesia, del lirismo, dell’invenzione. Quello che può sembrare un film edulcorato (specie nel finale) è invece un sonetto di infinita tristezza. Poco importa se, nella realtà, non esistano poliziotti che chiudono un occhio su un piccolo clandestino in fuga, non ci si aiuti fraternamente fra vicini di rione, non si guarisca miracolosamente da un male incurabile, non fiorisca un ciliegio da un giorno all’altro: è la bellezza del cinema di Kaurismaki, una bellezza che non ha bisogno di psicologie né di personaggi complicati per farci toccare con mano l’amarezza di una vita da outsider. “Miracolo a Le Havre” non raggiunge i vertici di ispirazione e profondità di “Luci della sera” o “L’uomo senza passato”, cammina talvolta su quella sottile linea che separa lo stile dalla maniera, senza mai cascarci; ma è certamente un’opera più matura e meno leziosa rispetto al precedente francese “Vita da Boheme”, dei primi anni 90. Da almeno una decina d’anni ormai, il finlandese è entrato in quella ristretta cerchia di cineasti contemporanei capace di definire patemi esistenziali, contraddizioni sociali e languori sentimentali con un paio di inquadrature ineluttabili. Menzione d’onore per Jean-Pierre Darroussin, che si aggiudica il triello attoriale.
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