Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
Il minimo fa rima con il massimo…
L’opera è un capolavoro perché riesce a trasmettere un’autenticità rara a vedersi al cinema. Affascina lo spettatore, e sa farlo emozionare e commuovere. I meriti principali risiedono fondamentalmente sia nella grazia e nella freschezza stilistica, sia nella sensibilità che pervade l’intera sceneggiatura. E’ sorprendente per come tratta l’interessante tema della clandestinità e della miseria sociale (ma anche morale), con rispetto e pudore, fantasia e intelligente ironia. Con la sua storia toccante e universale, etica e poetica, riesce meglio delle altre volte a offrire allo spettatore la forza di un cinema che sogna un mondo ideale, quello che ognuno di noi avrebbe voluto, quello che sarebbe dovuto essere. E che purtroppo non è. O in tono minore non c’è più.
Marcel Marx, un ex scrittore che ora è lustrascarpe, vive a Le Havre (una cittadina francese meta di profughi africani) e si ritrova a fronteggiare la durezza della sua condizione esistenziale tra povertà e difficoltà quotidiane, una moglie molto malata e la cagnetta Laika.
Un giorno casualmente incontra Idrissa, un bambino africano, ricercato dalla polizia e giunto clandestinamente in Francia. Marcel, nonostante varie difficoltà si promette di far arrivare il piccolo in Inghilterra, dove vive la madre.
“Miracolo a Le Havre” di Kaurismäki sembra il seguito tecnico di “Vita da bohème” e lo ricorda molto: per l’ambientazione francese, reale e surreale al tempo stesso; per il quadro di miserie e squallori; per il tono agrodolce; lo stile poetico e nostalgico; per i personaggi credibili, emarginati e bisognosi d’aiuto. Ma se ne differenzia per ciò che maggiormente esprime: intenso umanitarismo e indignazione sociale. Non a caso è un caloroso omaggio al cinema che fu di De Sica e Renè Clair, rimandando affettuosamente a ciò che più diventavano i loro film: messaggi di vera bontà. E non per niente c’è anche un cammeo di J.P. Léaud (era il bambino solo, inquieto e incompreso di Truffaut) emblematico rimando al desiderio di fuga da un mondo che reprime, verso la realizzazione dei propri desideri, passioni, affetti.
Senza rinunciare al rigore e al minimalismo della messinscena, kaurismaki costruisce un racconto morale che focalizza la nostra attenzione sulla mercificazione degli uomini, soprattutto i poveri, i più deboli, gli ultimi, gli emarginati, gli immigrati, i malati, nell’attuale clima di disumanizzazione. Potrà mai esserci possibilità di integrazione e riscatto per quest’ultimi? Osservando il nostro mondo, probabilmente la risposta sarà negativa, ma almeno al cinema, almeno in e per questa sua opera, l’autore vuol far finta che una volta tanto i miracoli possano accadere, a dispetto di chi, (nella pellicola Arletty, la moglie gravemente ammalata del protagonista) ormai stanco e disilluso dalla vita, crede nel contrario.
Con un tono dolce e gentile, per nulla compiaciuto o urlato, Kaurismaki realizza una sorta di favola condita con fluidità e leggerezza, discrezione e malinconia, dove si riabilita la nobiltà d’animo e quegli ideali scomparsi, come la solidarietà, la fratellanza, l’amore. Temi importanti, valori umani e morali, trattati in una dimensione apparentemente leggera, ma che riflettono in modo incisivo ed efficace l’atteggiamento di Kaurismaki nel continuare a schierarsi dalla parte degli umili; i quali, malgrado siano emarginati dal cieco e vacuo capitalismo globale, comunque trovano nel quartiere dove vivono un po’ di fratellanza.
E’ un’opera toccante, di ottima qualità visiva e con attori eccellenti. Una storia universale che sa ben dosare, in un magico equilibrio, un divertimento esilarante e una tragicità riflessiva. Sapientemente lontano da retoriche, enfasi o stereotipi, la magistrale regia di Kaurismäki punta dritto all’essenziale, usando uno stile minimalista che riesce a esprimere il cuore autentico delle cose e delle cose davvero importanti. Lo fa con un tocco sobrio e sensibile, selezionando situazioni e significati, scene e dialoghi eloquenti e mai inutili. Nessuno come lui sa descrivere così bene mondi e personaggi alle prese con la mancanza di materialità necessarie a sopravvivere, ma ricchi di quei valori, principi etici e ideali che li eleva sopra il rango più onorevole dell’essere uomini.
Tutto esalta questo aspetto: dalla nobiltà degli assunti, all’eleganza formale. Non si può non restare coinvolti da un’estetica pura e curata: inquadrature chiare e immediate, pochissimi movimenti della macchina da presa, colori tenui e anti-realistici, atmosfere soft e struggenti, suoni blues, scenografie anni ’50, ritmo scandito. Azzeccata è poi la scelta di non cancellare, nonostante il registro fiabesco, le disperazioni e le sofferenze, la vita agra del porto e le angosce, e poi malattia e morte, emarginazione e miseria.
I film dell’anarchico regista finlandese hanno un impatto visivo eccezionale e anche questo possiede uno stile espressivo ricco di sublimi contrasti di luce, luoghi ombrosi, fotografia color pastello; e poi di volti dimessi, sguardi intensi, silenzi eloquenti, dialoghi scarni, suoni blues, inquadrature malinconiche: tutto stilisticamente e figurativamente contribuisce ad arricchire di fascino quest’opera asciutta e precisa, persino la connotazione scenica vintage nostalgica degli anni ’50 /’60 (tutte le location sono volutamente rétro). Nel suo cinema fonde etica ed estetica, fa derivare la prima dalla seconda, e il tutto in modo mirabile e funzionale a uno stile filmico che, dagli ambienti, ai personaggi, alle atmosfere, rimanda al cinema francese degli anni Trenta (da Carnè a Clair) che, adottando il “realismo poetico”, sapeva abbinare l’impegno sociale alla forza dei sentimenti.
Il film elogia l’utopia della solidarietà e della fratellanza globale. Però non chiude gli occhi sulla brutale e drammatica realtà contemporanea, e non si culla nelle facili illusioni. L’uomo deve comunque agire. La brutalità di questo mondo può e deve essere ancora combattuta. Dalla determinazione del singolo (vedi Marcel nei riguardi del bambino) alla sedimentazione di una collettività solidale, il passo può essere breve.
Il regista combatte egoismi e intolleranze, si ribella alla diffidenza per lo straniero, all’insensibilità nei confronti del culturalmente diverso, a quella umana crudeltà che nasce quando ci si fa vincere da paure e ottusità (le persecuzioni di polizia e commissario; il reato francese di nascondere e ospitare un clandestino).
E alla fine ci invita a riflettere. A riflettere su come meglio comportarsi moralmente gli uni con gli altri. E questo sia dal punto di vista di giochi e strategie politiche degli Stati, spesso disumani e folli; sia da quello del singolo individuo, spesso irrispettoso e intollerante. Non basta soltanto desiderare un mondo migliore, bisogna agire! E non servono nemmeno i miracoli divini, tanto avvengono di rado. Gli uomini devono impegnarsi a dare un futuro ad altri uomini! Basta poco, in fondo, per ritrovare compassione e regalare generosità a un mondo che l’ ha dimenticata. Basta solo credere nel potere della tolleranza e della solidarietà. E questa fede potrà compiere il miracolo. Non soltanto al cinema...
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