Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
Cyril (Thomas Doret) è un ragazzino di dodici anni che desidererebbe tanto vivere col padre (Jèrèmie Renier), ma questi lo ha “parcheggiato” in un istituto d’accoglienza per l’infanzia senza andarlo mai a trovare. Inoltre, ha cambiato casa senza fargli conoscere il nuovo indirizzo e fa progetti per il futuro con una donna che non prevedono affatto la sua presenza. Di lui si affeziona Samantha (Cècile de France), una parrucchiera conosciuta per caso che, dopo avergli ricomprato la bicicletta che il padre aveva venduto a degli sconosciuti, accetta di buon grado di prenderlo con se ogni fine settimana e di aiutarlo a ritrovare il padre.
C’è più colore in quest’ultimo film dei fratelli Dardenne, più sole e più ampiezza scenografica, perfino un po’ di musica (Beethoven per essere precisi), che accompagna discreta il lento incedere della macchina da presa. Ma uguale rimane il rigore formale della messinscena e la coerenza etica della loro poetica, la propensione ad attaccarsi a storie di disagio sociale per farne la lente che scruta e stana insieme i germi antisociali del nostro ricco occidente, a fare di vicende particolari di vita vissuta lo scenario in cui riflettersi il senso del tragico che è in ogni storia di prevaricazione sociale. I personaggi tratteggiati dai Dardenne non si risolvono mai all’interno di condizioni di vita familiare “normalmente” strutturate o almeno sufficientemente pacificate, e la disgregazione del modello della “famiglia tipo” che ne consegue sembra sempre riflettere una più ampia degenerazione morale della società, l’idea di un mondo che è andato fuori giri, che produce aspettative in mancanza di una precisa idea sul futuro, che prende decisioni dal forte impatto sociale senza offrire adeguate garanzie rispetto agli effetti indesiderati che dette decisioni possono produrre. In un siffatto mondo, la sensazione di abbandono rischia davvero di diventare una buona compagna di viaggio per chi si trova a gareggiare nella “jungla” della vita con poche carte in mano, una sensazione che può alienare ogni anelito di speranza, ogni scelta non compromessa sul domani, distruggere l’avvenire. Ne “Il ragazzo con la bicicletta”, i fratelli Dardenne trattano il tema dell’abbandono inquadrandolo a dovere in una più ampia dimensione sociale, delineando le asperità caratteriali scaturite da un rapporto filiale in crisi e le sfumature sentimentali di un legame affettivo in divenire con una delicatezza del tocco che conferisce al tutto una credibile adesione alla realtà fattuale. Cyril cerca di appagare questo senso dell’abbandono maturando un legame morboso con la sua bicicletta, che se da un lato rappresenta l’elemento più tangibile che lo riconduce alla presenza del padre e ad un momento in cui si è instaurata tra di loro una proficua complicità, dall’altro lato assurge a simbolo dell’esserci in una società che giudica più in ragione di ciò che hai che per quello che sei. Non è un caso che per il ragazzo la bicicletta funga da tramite fondamentale per l’instaurarsi di ogni rapporto consolidato : quello col padre naturalmente, che rimane vivo nella sua memoria proprio grazie a questo regalo ricevuto, quello con Samantha, che conquista la sua fiducia dopo aver riscattato la bicicletta da chi l’aveva comprata dal padre, e quello con Wes (Egon Di Mateo), un perdigiorno di quartiere poco raccomandabile che dopo aver tentato di rubargliela più volte tenta di sfruttare la fragilità emotiva del ragazzo per cercare di irretirlo nei suoi loschi affari. Cyril impara in fretta che occorre pedalare se si vuole contrapporre alla fissità di un ruolo sociale che sembra sancito dalla crudeltà di un destino già scritto, la mobilità vorticosa di chi si adegua all’istintiva natura di disordinati moti di ribellione come all’unico modo per non farsi raggiungere dai morsi dell’abbandono. Non può concedersi subito all’affetto di Samantha, la sua esistenza disordinata non contempla al momento la fiducia incondizionata ma un percorso ad ostacoli fatto di errori e ripensamenti, parole che non si sanno dire e sentimenti che non si possono esprimere. Un percorso umano ed etico insieme : umano per la sua natura prevalentemente esistenziale, etico per le sue implicazioni intimamente sociologiche. Ma uno spicchio di luce i Dardenne ce lo concedono sempre, frutto di quell’indole solidaristica che si instaura quasi naturalmente tra chi si pone ai margini del senso comune dominante. E’ Samantha a catalizzare tutto il buono che ancora può esserci nell’animo umano, a proiettare l’idea che può esserci disinteresse nell’affezionarsi a un ragazzino conosciuto appena, che l’attrazione di spirito tra anime sole vale più di ogni legame materiale, che anche in una società votata alla più radicale inaffettività non si è mai totalmente soli, anche nell’abbandono. Mi sembra di poter dire che il fine poetico dei fratelli Dardenne sia quello di sancire la superiorità dell’uomo in quanto tale sulla morale corrente, senza alcun intento consolatorio o pretesa moralistica. Anzi, sono proprio la matrice affatto consolatoria che permea le loro storie, il rigore formale che ne caratterizza il linguaggio, il coraggio di mostrare senza remore di sorta la loro posizione intellettuale, a renderli, a mio modesto avviso, tra gli autori più importanti del cinema contemporaneo, con una qualità di scrittura e una capacità di analisi della società nel suo insieme composito sempre di ottimo livello. E con almeno un paio di capolavori già all’attivo.
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