Regia di Robert O'Hara vedi scheda film
Un horror africano? Per carità, questo è solo un conclamato caso di involontario trash a sfondo etnologico. Una storia di spiriti maligni trasportata tra le nevi dell’America del Nord, dove il culto tribale si manifesta sottoforma di tamburi, tatuaggi e costumi rituali fatti di pelli di animali e piante essiccate. A metà strada tra la semplificazione turistica e lo stereotipo razziale, quello dell’esordiente Robert O’Hara è un film senza un’ombra di inventiva, che non si capisce perché mai dovrebbe piacere: ridotto al minimo l’effetto macabro ed elevato al massimo il livello di prevedibilità, di spaventoso rimangono soltanto la regia e la sceneggiatura, che si rivelano del tutto incapaci di realizzare un’azione che stia veramente in piedi. All’inizio si sorride un po’, pur con un inevitabile sottofondo di fastidio, di fronte al tentativo, tanto pretenzioso quanto goffo, di dotare l’opera di una cornice sociologica, presentando un senso libertario della modernità contrapposto agli oscuri vincoli della tradizione ancestrale. Subito dopo il racconto si sbraca completamente, abbandonandosi ad un dilettantesco manierismo senza costrutto: un nulla cosparso di schizzi di sangue, fantasmi assassini, invocazioni demoniache, accette, motoseghe, ed altri fondi di repertorio, buttati lì tanto per far scena. La formula di The Inheritance ricorda tanto la ricetta della nuova aranciata all’americana: una sapiente miscela di acqua, aromi e coloranti, in cui il grande assente è il frutto.
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