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Suicide Club

Regia di Shion Sono vedi scheda film

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La recensione su Suicide Club

di cheftony
7 stelle

“Venite a guardarmi mentre mi uccido!”

 

 

Stazione metropolitana di Shinjuku, Tokyo, tardo pomeriggio del 26 maggio: 54 ragazze in divisa scolastica si tengono per mano oltre la linea gialla, contano ad alta voce fino a tre e si gettano sotto il treno in arrivo a forte velocità. La sera stessa, due infermiere si buttano da una finestra dell’ospedale durante il turno di notte. In entrambi i luoghi di questi incredibili suicidi di massa viene rinvenuta una misteriosa borsa da palestra bianca, il cui contenuto sconvolge gli inquirenti: un grande rotolo di frammenti rettangolari di pelle umana, di dimensioni identiche e accuratamente cuciti l’uno all’altro.
Gli investigatori Shibusawa (Masatoshi Nagase) e Kuroda (Ryo Ishibashi) vengono messi su una buona pista da una giovane otaku (Yoko Kamon) che telefona loro in centrale; la ragazza, che si fa chiamare The Bat, ha individuato un sito Internet in continuo aggiornamento che riporta esclusivamente pallini rossi e bianchi, indicanti rispettivamente il numero di ragazze e di ragazzi suicidatisi.
Non passa giorno, però, che Tokyo non sia teatro di orribili suicidi: è solo il 28 maggio e un gruppo di studenti – senza un motivo apparente e menzionando un certo Suicide Club – si unisce al fantomatico club e si getta dal tetto del liceo. Il giorno seguente, la giovane Mitsuko (Saya Hagiwara) viene sfiorata dal fidanzato in caduta libera da un palazzo soprastante. L’autopsia sul ragazzo rivela la mancanza di un frammento rettangolare di pelle tatuata sulla schiena, facilmente riconducibile ad uno dei tasselli contenuti in uno dei due rotoli di carne umana pervenuti sulle scene dei suicidi. Da qui l’idea della polizia: le persone vengono indotte ad uccidersi e viene loro prelevato un pezzo di pelle prima che compiano l’insano gesto. Esiste dunque una regia dietro tutto questo?
Nel frattempo, però, The Bat viene rapita e ogni schermo nazionale sembra sintonizzarsi sulle performance televisive dell’ennesimo gruppo J-pop, i Dessert, che con le sue melodie apparentemente inoffensive rappresenta la moda del momento. Al pari del suicidio, chiaramente…

 

“Ma se tu muori, perderai il collegamento con te stesso? Continuerai a vivere? Sei collegato con te stesso?”

 

locandina

Suicide Club (2001): locandina

 

“Suicide Club” è il titolo a partire dal quale si è sostanzialmente avviata la carriera del regista e sceneggiatore Sion Sono, al tempo già quarantenne e fin lì autore di diversi corti e mediometraggi, nonché di sparuti lungometraggi a basso budget consistenti di lunghi piani sequenza raccordati. Tecnicamente non è il suo lavoro d’esordio, dunque, ma è a pieno titolo un qualcosa di seminale all’interno della filmografia di Sono.
È stato innanzitutto un lavoro largamente discusso, giacché il tema del suicidio – già delicato di sua natura – diventa quantomeno spinoso quando si parla di Giappone: al di là della tradizione storico-culturale relativa al rituale del seppuku e ai kamikaze, nel Paese del Sol Levante il suicidio viene mediamente “tollerato” e il tasso di morti per suicidio è stato stabilmente fra i più alti nel mondo negli anni ‘90, in corrispondenza di una profonda crisi economica. Sicuramente non viene in aiuto il fatto che la società nipponica sia storicamente improntata sulla prevalenza della collettività sul singolo, che avverte come insopportabili le pressioni e le aspettative che la società ripone in esso. Nel momento in cui scrivo, per di più, l’isolamento, la depressione, l’alienazione, le angosce legate alla situazione economica post-Covid sembrano aver causato un’enorme quantità di suicidi nel solo mese di ottobre.
Enunciata questa premessa, è doveroso sottolineare che “Suicide Club” non fornisce alcuna spiegazione risolutiva alle ondate di suicidi collettivi ritratti nel film. In qualche modo, però, Sono sfrutta lo strumento della satira per mettere alla berlina una serie di aspetti importanti sulla società. Vanno in questa direzione, dunque, alcuni elementi di “Suicide Club”, a cominciare dalla cultura pop: il quintetto di teen idol a malapena tredicenni (alternativamente chiamato Dessert, Dessart, Desert o Dessret per motivi che tuttora mi sfuggono) che impazza su tutte le televisioni con le sue coreografie e canzoncine J-pop accattivanti è l’esempio cardine. Mentre il Paese è investito da un’irrefrenabile ondata di suicidi inspiegabili in pochi giorni, questo gruppo così kawaii sembra vagamente ricollegarsi con i suoi testi all’intera situazione. Non solo: è lo specchio dell’incomunicabilità generazionale che investe il Giappone, che divide i genitori dai figli, che non permette agli inquirenti di comprendere gli atteggiamenti delle studentesse in metropolitana. “Suicide Club” ci catapulta direttamente in una spirale psicotica che attanaglia la società dal suo interno. La spinta sociale al conformismo e alla rinuncia alla propria individualità è tale che persino il gesto di togliersi la vita può diventare una vera e propria tendenza.
Sion Sono utilizza strumenti propri dell’horror per affrontare una serie piuttosto ampia di temi, non ultimi i suicidi collettivi concordati via web e il ruolo che i media possono potenzialmente rivestire nel diffondere una “epidemia” suicidale. Lo splatter, ad ogni modo, è assai contenuto, artigianale (si tratta pur sempre di un film indipendente dalle risorse limitate) e persino esilarante, finanche catartico. Lo shock ricercato da Sono è puramente teorico e psicologico, ma non cerca il disgusto sul piano visivo o il limite tra filmabile e infilmabile. Certo, la sequenza iniziale in cui 54 ragazze adolescenti si tengono sorridenti per mano e si buttano sui binari per generare una pioggia di sangue fa un notevole effetto e quasi da sola vale la visione dell’intero film, specie se si considera l’accompagnamento musicale costituito da un’allegra marcetta.
Da buona opera primordiale, “Suicide Club” presenta alcune caratteristiche tipiche di un materiale filmico prezioso ancora da sgrezzare: molti personaggi mancano di approfondimento, non è chiaro se vi siano dei protagonisti veri e propri, i ritmi non sono gestiti sempre brillantemente, alcuni passaggi risultano inseriti poco armoniosamente nel contesto. Un ottimo esempio è rappresentato dal personaggio di Genesis, una sorta di tributo al glam e a “The Rocky Horror Picture Show”, invero esteticamente affascinante nel momento di maggior tensione e spaesamento del film.
“Suicide Club” è duro, provocatorio, suadente, grottesco, destabilizzante e, a suo modo, divertente. Un biglietto da visita senz’altro particolare.

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