Regia di Susanne Bier vedi scheda film
Den eneste ene è il film che ha portato alla celebrità la Bier in Danimarca, nonché uno dei maggiori successi di sempre del cinema danese in patria. In Italia, dodici anni e una consacrazione mondiale della regista dopo (è giusto ricordare quantomeno l’Oscar 2011 per In un mondo migliore), questo titolo ancora non è neppure arrivato. Non che si tratti di un lavoro così difficile a recepirsi per un pubblico straniero: in fondo si tratta della solita commediola sentimentale che fra crisi, rotture, riappacificazioni e nuovi incontri affronta l’annosa – e fondamentalmente onnicomprensiva – tematica della difficoltà nel mantenere in piedi una relazione. Ma la forza di Den eneste ene, il cui potenziale è stato compreso perfino da Hollywood (nel 2002 Simon Cellan Jones ne ha fatto una versione a stelle e strisce con The one and only, traduzione letterale, nel cast anche Patsy Kensit), sta nell’impietosa dose di tragedia che pervade le maglie di una costruzione narrativa sostanzialmente, come già rilevato, adagiata sui canoni della più modesta e blanda commediola; in questo va elogiata la sceneggiatura di Kim Fups Aakeson (da un soggetto della Bier), che riesce a cogliere l’inquietudine dei nostri tempi nonostante l’impianto leggerino della storia: tradimenti e divorzi sono solo la facciata della situazione, ma alle loro spalle si nascondono litigi violenti, drammi esistenziali e perfino l’aborto, argomento che al cinema viene raramente trattato proprio per la sua pesante scabrosità. Di limiti, però, ce ne sono e altrettanti: innanzitutto la stridente sottigliezza dei personaggi, costruiti con grave approssimazione a dispetto dell’incontro con una serie di eventi, come detto, che di facile e lieve ha ben poco (l’italiano sciupafemmine che, lasciato dalla moglie, se ne va dall’ospedale gridando ‘Forza Italia’ è un incubo che neppure Mino Reitano ergendosi sull’Altare della patria sotto Lsd avrebbe potuto partorire); e poi è impossibile non rimanere disgustati dal finale pacificatore e insulso, che pretende ad ogni costo di allietare il pubblico, anche se questo comporta stuprare la logica dell’intera storia: è questo davvero un finale da festeggiare? Parrebbe di no. 5/10.
L'operaio venuto a montare la nuova cucina si innamora della padrona di casa. Che c'è di male? Che sono entrambi sposati, lei è incinta e lui ha appena accolto in casa sua la piccola Mgala, bambina adottata dal Burkina Faso.
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