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Jar City

Regia di Baltasar Kormákur vedi scheda film

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La recensione su Jar City

di OGM
8 stelle

Balthasar Kormákur vuole disgustarci con lo squallore della corruzione fisica e morale, e lo fa, a prima vista, senza alcuno stile, però con grande effetto. Jar City è, all’apparenza, un brutto film, che, però,  fa salire subito l’angoscia alla gola. Una pellicola dalla tonalità smorta, in cui tutto puzza di rancido, compreso il dolore.  E nessuna pietà è concessa alla nostra sensibilità, che continua a soffrire per quell’atmosfera umida, fredda e infetta, in cui ogni traccia di umanità è scomparsa. Ovunque regna la catatonia dei sentimenti, della gioia, della speranza, mentre l’istinto è ridotto a pura primitività. Ciò che lo spettatore prova è una nausea che non ha le tinte accese del raccapriccio, bensì presenta le fosche gradazioni della noia. La depressione grava come una cappa soffocante su quel mondo nebbioso e dimenticato da Dio, eppure troppo cupo ed amorfo per attirare il diavolo. A colpirci, in ogni inquadratura, è un tedio spento e volgare, una sorta di asfissia estetica, che   trasforma l’indagine dell’ispettore Erlendur in un viaggio attraverso un tunnel tappezzato di carne ingrigita e di un orrore che ha la patina opaca di un ricordo sbiadito. Altrove, nel cinema nordico, il gelo ha lo splendore azzurro del ghiaccio, e rappresenta, in fondo, una desolazione inondata di luce. In questo caso, invece, il terreno è brullo e la neve è sporca, e tutto è immerso in una eterna penombra  incolore, in cui si avverte, pungente, l’odore di chiuso. La superficie delle immagini è porosa, e trasuda stanchezza ed inutilità; però, nelle sue crepe, riesce ad inserirsi anche qualche atomo di umorismo. A dispetto della trama poliziesca, quest’opera  non è un thriller: è, piuttosto, un dramma dalla faccia stropicciata e sudicia. Del resto, la tensione del giallo sfuma sotto il persistente senso di oppressione: la vicenda procede arrancando, ostacolata dalla svogliatezza e dalla ripugnanza, dribblando continuamente il desiderio di lasciar perdere e rassegnarsi all’irrecuperabilità della situazione. Il racconto globalizza l’impotenza e la deriva etica:  le  problematiche sociali sono ridotte ad un solo comune denominatore, che è quello del generale abbrutimento, richiamato, metaforicamente, dal dilagare, presso la popolazione, di una patologia degenerativa dei neuroni.  Jar City presenta un’autorialità che, nella forma, si rinnega, riducendosi ad una manciata di terra intrisa di marciume; eppure, nella sostanza, sostiene in maniera coerente e continua un’idea di irrimediabile naufragio della civiltà: la condizione di un essere umano che vive in abitazioni di cemento e lavora in un ufficio, che pensa e parla, ma è, di fatto, un animale malato e privo di grazia.

Un alone di letterarietà si affaccia, a sorpresa,  nel finale, quando un padre dice alla figlia: “Scusami, non mi volevo arrabbiare con te. Ma quando vedo il modo in cui vivi, in cui sprechi la tua vita, e poi guardo una piccola bara riesumata dalla fossa, niente ha più senso, davvero. Non so cosa succederà, e vorrei pestarti a sangue. Credi di poterti mettere un’armatura e difenderti da tutto. Credi di poter guardare il marciume intorno a te, da lontano, come se non ti riguardasse. Ma tutta questa sporcizia ti perseguita, come uno spirito maligno.  Alla fine, arrivi anche a dimenticare che la gente normale vive la propria vita.”

Intanto, in sottofondo, un coro intona un canto funebre.

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