Regia di Hugh Hudson vedi scheda film
Sicuramente il genere che detiene un minor numero di pellicole è quello sportivo. Non perchè lo sport non sia apprezzato dal grande pubblico, ma per motivi più di intrattenimento che altro. Trarre una storia interessante e avvincente in ambito agonistico, difatti, non è per niente semplice, tutt'altro. Hudson ci prova, prendendo spunto dalle Olimpiadi del '24, nello specifico nell'atletica.
La base dell'opera prima del regista inglese c'è. Il periodo storico (dai risvolti razzisti poco marcati), interessante preludio allo scoppio della seconda grande guerra. La rivalità tra due individui, uno una specie di Hermes dotato di un talento divino, l'altro molto più umano e dedito all'impegno e alla devozione di questa disciplina. Unica differenza? Se l'unica abnegazione del secondo è quella della corsa, il primo la possiede nella cristianità, con relativi ostacoli religiosi.
La regia di Hudson è solida, magari un po' meccanica, ma riesce comunque a mostrare una certa maestria, soprattutto nei pochi rallenty, che riescono a conferire una certa dose di valorosità e tensione alla trama. Il tutto accompagnato da una colonna sonora non indifferente, ma anzi protagonista del film. Vangelis firma musiche emozionanti, destinate ad essere ricordate negli anni a venire per simboli di vittoria e motivazione. Vince un meritato oscar, impressionando e trascinando lo spettatore soprattutto in quei rallentamenti tanto significativi, come la sequenza iniziale di corsa nelle rive inglesi.
Purtroppo è l'unico oscar meritato che "Chariots of Fire" ha ottenuto. I costumi, innanzitutto, sono fedeli all'epoca dove è ambientato la trama, ma non particolarmente eccelsi e minuziosi, di certo non possono sperare vagamente di essere migliori degli altri due film in concorso quell'anno ("Ragtime" di Milos Forman e "La Donna del Tenente Francese" di Tom Rand). Ma è quello per la "Sceneggiatura originale" che è forse il premio più insolito; la pellicola si sposta continuamente da dialoghi cristiani e devoti, a frasi sentimentali, per terminare su frasi sportive già sentite e per niente convincenti: in particolare gli ultimi, che sembrano banali scopiazzature di altri film ove lo sport è protagonista ("Rocky"...). E se dunque la pellicola può benissimo essere riassunta in tre aggettivi quali: retorico, melenso e pomposo. Non si riesce a comprendere come un simile prodotto, abbia potuto essere decretato come "Miglior Film". La religiosità dell'opera è continuamente invasiva, a livelli così ampi che trasformano l'intera opera in un prodotto di patetico buonismo, con l'aggiunta di un'epica che funziona solo in rari momenti, mentre nei restanti appare tediosa se non ridicola. Per non parlare delle scene sentimentali o che vogliono emozionare, che oltre alla noia portano un senso di insussistenza non indifferente.
La trama, che tenta di conquistare per sentimento e passione, fa tutto l'opposto facendo apparire gli atleti come superbi e bigotti, una scelta che risulta pesante causa il suo ostentare retorica e valori per niente credibili e condivisibili. Non aiutano certo gli interpreti, che oltre a trovarsi personaggi odiosi e fiacchi già per scrittura, con la loro incompetenza non fanno che peggiorarne la visione. Ben Cross e Ian Charleson, peccano uno nel tentare di dare carattere al suo personaggio con un'espressività ai limiti del ridicolo, l'altro rimanendo semplicemente fisso in un eterna espressione monofacciale. L'unico è Ian Holm, che riesce a rendere più simpatico il suo allenatore pieno di speranze.
Che dire se non che è da dimenticare questo insieme di sdolcinature e retorica spicciola, dalla lunghezza insostenibile e dalle sceneggiature improponibili, dove la buona regia e le musiche significative non salvano questo film da un risultato insufficiente.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta