Regia di Ousmane Sembene vedi scheda film
Dedico questo film a tutti i militanti della causa africana. (O. Sembene). Un proclama politico, che, non appena il sipario si apre su questa storia di gente africana e guerre europee, sfuma immediatamente nel colore della natura selvaggia, e di una religiosità primitiva che fonde l’anima umana con le misteriose energie del cosmo. La semplicità della vita quotidiana di una tribù senegalese, che attinge acqua dalle sorgenti con gli orci e coltiva la terra con le mani, con i piedi e con gli utensili di legno, è un’armonia primordiale in cui gli uomini bianchi si inseriscono come soggetti completamente estranei: una propaggine della cosiddetta civiltà che si incunea a forza in un mondo perfetto, in cui non manca nulla, tanto che ogni aggiunta non può che diventare un elemento di disturbo. La povertà degli abitanti del villaggio diola è solo un’apparenza materiale, che sottende una profonda ricchezza di risorse spirituali, che inizia col senso della dignità umana, prosegue nei valori dell’unità e della solidarietà col prossimo, e si compie, infine, nella devota sottomissione alle entità superiori che governano l’universo ed i destini individuali. Sembene concepisce questo film come un documentario, con dentro un drammatico racconto: un panorama sui rituali - sacri o profani, e sempre corali - di una piccola comunità di indigeni, che viene bruscamente interrotto dall’intrusione delle truppe coloniali, venute a deportare i giovani verso il fronte franco-tedesco del secondo conflitto mondiale, e a requisire il raccolto per rifornire l’esercito del maresciallo Pétain. In questo plateale scontro tra culture, che sembra attraversare i millenni trascorsi dalla preistoria all’era contemporanea, la parte rozza spetta, in realtà, alle logiche ed alle maniere militaresche degli ufficiali francesi, mentre, sul versante opposto, prevalgono i principi evoluti della giustizia, del coraggio, della fede in una volontà ultraterrena a cui poter affidare la propria esistenza. Le invocazioni agli dei, i canti propiziatori, i ritmi dei tam tam, che attraversano l’aria e forse arrivano al cielo, sono una poetica sfida alla crudele miopia dei colonizzatori, ai loro pensieri incapaci di sollevarsi da terra per guardare al di là delle necessità del momento. Emitaï, padrone del cielo e della guerra, Eyoumpene, dea della luce, Salignan, dea dell’abbondanza, e Bakin, padre della terra, sono gli eterei personaggi che popolano la dimensione immaginaria che separa la vita e la morte, e dai quali provengono una verità e una saggezza che trascendono il tempo e non ragionano secondo la caotica contingenza degli eventi storici. Le loro leggi non si modificano con le circostanze, e non si lasciano contagiare dalla “stupidità” di un popolo che depone un capo con sette stellette (Pétain) per sostituirlo con uno che di stellette ne ha due sole (De Gaulle). Il realismo di Emitaï si lascia permeare da questa eternità che è un’ancestrale forma di innocenza, e forse di purezza, producendo una visione limpida, dura e genuina come la luce di un diamante grezzo.
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