Regia di Stephen Daldry vedi scheda film
Da questo film non si riesce a staccare lo sguardo. Aver letto il romanzo di Jonathan Safran Foer non ne diminuisce il fascino. La disperata ricerca di un collegamento all’interno del nonsenso: la pura casualità è troppo incomprensibile per essere accettata dalla ragione, che si nutre di motivi da ricostruire, di enigmi da risolvere. Non esistono indizi che non portino a qualcosa, oggetti od eventi che capitino sulla nostra strada senza essere indicatori di una direzione. Per il piccolo Oskar Schell, una chiave sconosciuta scoperta dentro un vaso è, insieme, traccia e mistero. Il bambino vi vede un segnale da decifrare: un sibillino rimando al padre scomparso, il cui corpo è andato disperso sotto le macerie del World Trade Center. Quel ritrovamento è troppo strano per non avere un significato. E Oskar inizia ad indagare, con fare sistematico ed instancabile, senza lasciare nulla di intentato, per riallacciare quel legame troncato in maniera tanto crudele ed assurda. Raccogliere un’eredità da chi ci ha lasciato: tutti ne abbiamo bisogno. Non si può essere lasciati a mani vuote da un padre che se ne va. Questa verità ha diverse facce, che dipendono dal tipo di lascito che si vorrebbe ricevere: materiale, affettivo, o semplicemente indefinibile. Tre versioni che corrispondono, in questa storia, alle situazioni di altrettanti personaggi: tre figli che hanno dovuto aspettare, per poco, a lungo, o per sempre. Ciò che manca a Oskar è una risposta, che desidera con tutto il suo cuore di bambino. A quell’età le aspirazioni si chiamano ancora sogni, e sono animati da un’intensa carica di fantasia e da una sfrenata voglia di giocare. Si cresce cacciando tesori ed inseguendo aquiloni: andare dietro a ciò che è inafferrabile ci insegna a progettare il futuro. Per Oskar l’ansimo della corsa è diventato il suo normale respiro; è il ritmo forsennato con cui la sua mente partorisce ricordi e la sua bocca erutta fiumi di parole. La concitazione di una passione infantile è il palpito di un eros primigenio, avido di sapere ed ansioso di dare sfogo alla propria irrequietezza. La regia di Stephen Daldry imprime questa energia sulla pellicola impregnandola di tutta l’angoscia di un’assenza: o, meglio, della radiazione emessa da una presenza distante, appartenente ad un mondo ormai disgiunto dalla vita, di fronte al quale si prova grande attrazione, ma anche tanta paura. La perdita di cui non si viene a capo è lo stimolo che spinge ad andare oltre, a scavare a fondo, portando avanti il pensiero e facendo maturare il sentimento: solo se il traguardo è irraggiungibile, questo cammino può proseguire in eterno. Il rapporto tra Oskar e suo padre ruota intorno ad una favola metropolitana, riguardante un fantomatico sesto distretto di New York, che un tempo esisteva e poi è svanito nel nulla. Il passato irrecuperabile, favoloso e forse inventato, è l’anima di tutte le mitologie e le religioni: come a dire che l’insegnamento può essere perfetto e duraturo solo se affonda le radici in una leggendaria inconoscibilità. Questo film si lascia morbidamente avvolgere dall’inesistente, che riesce a trasformare in una luminosa espressività: quella che, ad esempio, caratterizza il personaggio del vecchio affittuario, affetto da mutismo, per il quale, però, l’assenza di parola diventa ricchezza di sfumature concettuali, affidate ad atteggiamenti del viso e delle mani e a movimenti di foglietti scribacchiati. Oskar, a sua volta, si nutre del vuoto, del vento proveniente da quella voragine che si è improvvisamente spalancata di fronte a lui; e anche dell’inutilità dei suoi viaggi attraverso la città, dei giorni passati a bussare alle porte di gente mai vista, della disillusione che, comunque, è concretezza che giunge a mettere un punto finale all’interminabile affanno dell’utopia. Molto forte, incredibilmente vicino è l’eco dell’ignoto, che all’umanità fa solo un vago cenno da lontano; eppure, se noi lo vogliamo, possiamo credere che si rivolga espressamente a ciascuno di noi, chiamandoci singolarmente, e a gran voce.
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