Regia di Jason Eisener vedi scheda film
Cazzo! Cazzo! Cazzo! Cazzo! Ecco come tradurre a parole i pensieri, le sensazioni orgasmiche e le 4 stelle attribuite a “Hobo with a Shotgun”: chi ama un certo tipo di pellicole (che tendono a rievocare il cinema del passato, che mescolano i generi con un cocktail di elementi provenienti da diversi linguaggi e metalinguaggi cinematografici e letterari) dovrebbe augurarsi che esista un film all’anno come questo. E non perché ci si trovi di fronte ad un capolavoro assoluto, anzi si tratta di una pellicola che in molti non vedranno o non ameranno proprio per il suo essere felicemente sconclusionata e irrealista, nonostante la forte carica satirica e grottesca. Non ha appigli con la realtà, i personaggi sono deformanti e deformati, come se venissero da un’altra dimensione, un pianeta attiguo alla fantasia dove l’autenticità è solo un ostacolo da superare e scavalcare e l’attendibilità delle fonti di ispirazione, citate e omaggiate, diventa l’unico faro guida per districarsi tra psiche contorte dal progresso sociale, che deforma atteggiamenti e percorsi conformandoli ad uno standard in cui l’evoluzione corrisponde all’involuzione, relegando l’uomo stesso allo stadio primitivo in cui homo homini lupus sembra essere l’unica legge divina.
“Hobo with a Shogun” nasce in un contesto particolare. Tutti ricorderete che nel 2007 Robert Rodriguez e Quentin Tarantino si imbarcarono in un progetto letteralmente folle e visionario che tendeva a riportare in voga il fenomeno tutto Anni Sessanta del doppio film a prezzo di uno, ovvero l’abitudine delle “grindhouse”, ovvero dei cinema di serie B, di proiettare più di un film (spesso horror) pagando un solo biglietto. I due registi scrissero, produssero e girarono un film di 4 ore, “Grindhouse”, sapientemente diviso in due parti: “Planet Terror” e “Death Proof”. Tralasciando la vergognosa distribuzione italiana che divise il progetto facendone due film distinti e separati, programmati per di più in sala lontani l’uno dall’altro, negli Stati Uniti per facilitare la visione della pellicola fu reintrodotta temporaneamente la pausa intervallo (comprensibile) e i due registi ebbero la brillante idea di far partire il “secondo tempo” con una serie di finti trailer di pellicole non esistenti per riportare gli spettatori all’atmosfera del progetto. Nacquero così 4 differenti video: “Machete” di Robert Rodriguez, “Don’t” di Edgar Wright, “Thanksgiving” di Eli Roth e “Werewolf Women of the SS” di Rob Zombie. I 4 trailer erano accompagnati anche da uno spassoso spot commerciale di una finta salsa di pomodoro, “Tex – Mex Food” degli Acuna Boys. In breve tempo, quello che erano un gioco tra registi amici e volutamente visionari si trasformò in una mania che dilagò nel web tanto che il regista Robert Rodriguez decise di bandire un context, un concorso, che avrebbe premiato tra i giovani amatori coloro che avrebbero realizzato il miglior finto trailer. Tra prodotti interessanti come “Kill Your Killer” e “Cong of the Dead” (cercateli su YouTube per averne idea), a vincere il concorso fu il giovane Jason Eisener con il suo “Hobo with a Shotgun”. L’idea di “Hobo” era stata suggerita a Eisener dall’universo dei film che aveva potuto visionare per anni in videocassette comprate per mercatini dell’usato o in videoteche non certo di prim’ordine. Da quel momento la storia è nota, Robert Rodriguez ha deciso di realizzare un film vero e proprio dal suo “Machete” e stessa sorte è toccata anche a Jason Eisener che, trovando l’appoggio del popolo di internet e della casa di produzione canadese Rhombus Media (che ha realizzato tra l’altro un film in coproduzione italiana qualche anno fa, “Il violino rosso”, l’esatto opposto degli splatter) e contando sul si per il ruolo principale di Rutger Hauer, è riuscito a presentare la pellicola al Sundance Festival, riscuotendo plausi sia dalla critica sia dal pubblico.
Il plot del film è abbastanza semplice: un reietto della società, un vagabondo, decide di scendere dal treno merci in cui viaggia a scrocco e fermarsi nella città di Hope Town. Non appena stanziatosi, si rende conto che tutto ciò che manca in quel posto è la speranza: la città è ossessionata, vessata, brutalizzata dalla violenza efferata del clan del folle e potente boss “The Drake”, il drago, che in combutta con la polizia locale, corrotta e senza scrupoli, e con l’aiuto dei suoi due bracci destri, i figli Slick e Ivan, terrorizza come in un depravato show televisivo i concittadini. Resosi conto dell’impossibilità di porre fine alla violenza ricorrendo a vie legali, il vagabondo, in un giorno di ordinaria follia, nel tentativo di difendersi da una rapina, impugna un fucile e si trasforma in una specie di giustiziere della notte. Pur nella sua solitudine voluta, il vecchio vagabondo incontra e salva una giovane prostituta, Abby, dalle grinfie di Slick, sfregiando al volto il ragazzo. Tra il vagabondo e la giovane si instaura subito un rapporto filiale, paragonabile a quello tra un nonno apprensivo e protettivo e una nipote diligente, con lo stesso sogno nel cassetto da realizzare: aprire un’attività di giardinaggio in un’altra città volta alla tosatura dell’erba. L’aver usato il fucile durante la rapina fa sì che lo spirito vendicativo del vagabondo lo porti in breve tempo a sostituirsi alla polizia locale, con l’obiettivo di riportare l’ordine. Ciò causa una violenta opposizione tra il vecchio e il boss locale.Di conseguenza nella città, in seguito alle azioni punitive di Drake, il panico cresce sempre più e come in una moderna caccia al tesoro Drake mette in palio un gruppo di ragazze nude a chi è capace di riportargli morto colui che ha osato sfidare il suo sistema. Si scatena così un’efferata corsa al barbone, fatta di ronde notturne che colpiscono a morte i senzatetto del posto e che in un crescendo portano i figli di Drake a incendiare uno scuolabus di bambini. La situazione si complica ulteriormente tanto che Drake è costretto a ricorrere alla terribile “Peste” per annientare il vagabondo.
Partendo dal presupposto che occorre farsi prendere piacevolmente per il culo dal regista, abbandonando cognizioni logiche, rapporti di causa e conseguenza, elementi di logica visiva e percettiva, la pellicola va analizzata con i linguaggi cinematografici e metacinematografici che usa. Innanzitutto, si tratta di un fumetto dark e gotico nelle intenzioni ma straordinariamente colorato nella realizzazione. È la prima contraddizione ricercata che salta all’occhio: morte, violenza e zombie viventi (sembrano essere cittadini dell’aldilà gli abitanti di Hope Town) non vivono di colori scuri ma di colori sgargianti, vivi, esagerati e esasperati. Anche le scene notturne e cupe conservano qualcosa che le risveglia, le rianima, in modo che lo spettatore sia sempre cosciente dell’irrealtà proposta. A far da cornice ai colori delle scene vi sono anche i colori degli abiti messi in scena, soprattutto i colori della divisa di ordinanza di Drake e dei suoi due figli: giacca, pantaloni e cravatta bianca su camicia nera. Il bianco è il colore della purezza per eccellenza, sporcato solo all’interno dal nero cupo, a tinta unita: se l’anima è attraversata dal Male, l’apparenza fisica di facciata è rappresentata dall’apparenza quasi mite e candida. È chiaro che si tratta di un accostamento ossimorico, tanto più che il “Padrino” di Drake è sin da subito rappresentato con le peggiori connotazioni, esponenzialmente sottolineate: violento, atroce, truce, pervertito, megalomane e visionario. Drake vive come se fosse continuamente il protagonista di un programma televisivo incentrato sulle sue avventure. Parla come in un reality show che ne segue vicende e pensieri, ammicca alla telecamera e organizza spettacoli ad hoc per il pubblico, spettatore involontario inizialmente e quasi “pagante” nel finale da arena di wrestling o di gladiatori. E irrompe direttamente nello studio di un telegiornale per lanciare la sua caccia al nemico, per il suo urlo del “dargli all’untore”, accompagnato dalle sue vallette personali, quelle che potremmo quasi definire “bossine”, giovani donne discinte con il seno al vento, con le mutande in primo piano e eccessivamente caricate di trucco e, spesso, di pelliccia. È un boss sui generis Drake: anziché nascondersi, si mostra, mette la faccia in tutto ciò che fa e richiama l’attenzione come se fosse l’unico generatore del mondo. E per muoversi usa le sue armi migliori, i due figli Slick e Ivan, uno l’opposto dell’altro ma entrambi pop e legati al consumismo sociale, il cui simbolo sono i pattini da hockey su ghiaccio che Ivan, il più svampito dei due, usa come scarpe e armi. Sopraffatti dai loro vizi, i due si muovono tra auto di lusso, gioielli, cocaina, prostitute, sesso ed efferatezza, come tutti i giovani figli di questa città immersa in un luogo indeterminato dello spazio e del tempo.
Non si ha mai nessuna indicazione su Hope Town, si sa solo che è una città statunitense qualsiasi, volta al degrado e, contrariamente al nome, senza speranza. È abitata da persone che hanno accettato in silenzio e sommessamente tutto ciò che avviene attorno, che non hanno forza di reazione e che passivamente stazionano sotto e intorno ai pantaloni di Drake e figli, con un’aria rassegnata e impaurita. A Hope Town, o “Scum” (feccia) Town (come indica la scritta sovrapposta a mano nel cartello d’ingresso), nessuno ha voglia di ribellarsi o di curare il proprio giardino, i viali della città risuonano di spari, incendi e di azioni malvagie di giovani punk. Gli asfalti delle strade sono costellati di abiti e immondizia, di vite lasciate marcire al suolo e di tombini che diventano armi di torture, di vizi pubblici e privati da nuova Sodoma, da nuova “sin city”, città del peccato. Le vecchie generazioni non riescono a ribellarsi mentre le nuove generazioni si adattano e assumono atteggiamenti conformanti con la malavita e la corrotta polizia locale. Potere e denaro sono gli unici obiettivi raggiungibili, le armi invece l’unico mezzo per arrivarci. È palese come la critica alla moderna società incapace di prendere posizione sia la linea guida dell’attacco satirico che un secondo livello di lettura del film pone in evidenza. E l’attacco satirico non risparmia neanche l’industria cinematografica: si mostra un giovane videomaker che con telecamera sulle spalle gira tra i sobborghi della città e filma delle immagini a metà strada tra gli snuff movie e i video alla “Jackass” con attori reclutati per strada costretti a farsi massacrare o a mangiare cocci di bottiglie rotte pur di rimanere in scena e portare a casa i soldi. Si sente l’eco dell’attacco ai cosiddetti “film alimentari” ma senza che ciò risulti estrapolato dal contesto o fuori luogo.
Tema fondamentale dell’intera pellicola sembra essere la redenzione e il riscatto sociale del barbone che si muove come un novello giustiziere della notte. Su chi sia il vagabondo non abbiamo notizie, lo vediamo subito come l’ “uomo venuto da lontano”, nessun flashback sul suo passato, nessuna informazione sulla sua psicologia. Di lui sappiamo che vorrebbe curare i giardini dei sobborghi acquistando un tosaerba, strumento che gli permetterebbe di cominciare a tagliare e a estirpare tutto ciò che rovina l’ambiente. La metafora del tosaerba e del giardino rivela come l’uomo possa essere confrontato con un salvatore sui generis, una sorta di cristo venuto a liberare i giardini fecondi della terra dai mali. Quindi, il bene passa necessariamente dalle mani di colui che per molti è un reietto della società, un parassita che vive sulle spalle altrui, incapace di provvedere a se stesso. Ciò però non spiegherebbe come mai improvvisamente avvenga la trasformazione dell’uomo, bisogna leggere tra le sue parole e le sue conversazioni con la giovane prostituta Abby: è bastato un po’ d’affetto, un briciolo di attenzione per fargli riscoprire il bene, così come è bastato un po’ di sangue umano per risvegliare il suo istinto primitivo da orso. Ed è coniugando questi due aspetti che trova spiegazione la scia di violenza che egli stesso mette in atto: usa lo stesso linguaggio dei malviventi, usa le stesse tecniche distruttive ma con uno scopo differente. È il “giustiziere della notte” per antonomasia, del resto la causa scatenante è la stessa: la violenza ingiustificata e immotivata su una donna. Quindi, il Bene per trionfare ha la necessità di annientare il Male fingendosi a sua volta Male per capovolgerne l’ordine. Un continuo gioco di rimandi e di cambiamenti di prospettive che fa sì che la salvezza per Hope Town passi dalle mani di un barbone e di una puttana. Traslitterando il tutto, la salvezza ancora una volta passa per un vagabondo e una prostituta. Domanda legittima: il Figlio e la Maddalena? Del resto, sul finale, da un cimitero per annientarli si richiama la Peste, un duo di terribili killer mascherati da Skeleton (ed ecco che ritorna anche il fumetto) che ha distrutto e annientato in passato proprio Gesù Cristo (ne conservano la foto tagliata da una “X” rossa).
Essendo un chiaro omaggio ai film da cassetta, si notano subito elementi provenienti da generi cinematografici differenti. A cominciare ovviamente dall’universo degli exploitation movies, sesso e violenza: donne seminude che ballano irrorate da fiumi di sangue che sgorgano da cadaveri senza testa, corpi femminili appesi come se si fosse nel retrobottega di una macelleria, giugulari che segate pullulano di fiumi rosso pomodoro, sangue raggrumato e rappreso sui volti dei protagonisti, dialoghi osceni sulle abitudini sessuali, peni in evidenza dilaniati dallo sparo di un fucile, lame da pattini da hockey che infilzano membra e budella esposte in primo piano, ossa dell’avambraccio usate come mezzo di leva fisica o come arma bianca. Niente di tutto ciò però terrorizza o inquieta, si sorride e si sottolinea la genialità esteriorizzante del giovane regista e basti vedere la scena in cui il nostro vagabondo viaggia nascosto in un carrello per la spesa, nascosto proprio tra le interiora di un poliziotto corrotto ucciso. Gli elementi da splatter poi trovano nel tosaerba il continuum con il filone dei killer, dei folli assassini, dotati di motosega che hanno infestato gran parte dei film horror degli ultimi trent’anni di cinema. Ma, nell’ottica del fumetto che tende anche alla mitologia guerriera, sul finale, il tosaerba si trasforma in scudo tranciante.
E arrivano invece dal cinema western il concetto di “taglia” (“vivo o morto”) e l’uso di un nuovo tipo di impiccagione. Siamo dalle parti dello spaghetti western violento, alla Corbucci e alla Leone per capirci, dove il cavaliere cinico, infame e violento, si è trasformato in vagabondo: il buono, il brutto e il cattivo convivono in Rutger Hauer e nella sua teutonica stazza, nel suo angelico e mite aspetto (invito chiunque ad aver paura di un bonario anziano con occhi azzurri e capelli biondi). L’impiccagione ritorna in diversi punti del film, il cappio è arma usata sia dalla Peste, che si muove su motori alla “Easy Rider”, all’interno di un pronto soccorso, sia dal boss Drake per eliminare i suoi nemici in una variante curiosa e spettacolare. Impiccalo più in basso, verrebbe da dire: il nemico si ritrova un tombino attorno al collo e viene fatto sprofondare nei condotti della fognatura, la testa rimane in superficie e legata ad un’automobile che grazie a un cappio la stacca e la porta via come un trofeo di conquista da mostrare.
Si strizza l’occhio anche all’universo delle serie televisive ospedaliere, con una parentesi al pronto soccorso in cui nessuno vorrebbe mai finire, tra medici inetti e infermiere poco professionali, così come si ironizza sul gioco preferito dagli antichi Romani, l’arte dei gladiatori, con una scena di duello finale caratterizzata da un pubblico che decide le sorti degli sfidanti, tra pollici all’insù e pollici versi. E senza tralasciare l’universo filmico dei gangster movie, con un boss sopra le righe, e dei film polizieschi.
Il risultato è un pastiche postmoderno che convince e diverte, aliena la mente e la coccola grazie anche alle interpretazioni degli attori, da Rutger Hauer (a proposito: visto il post del nostro Travis? No? Eccolo: http://cinerepublic.film.tv.it/il-ritorno-di-rutger/3357/) nei panni del vagabondo a Brian Downey nei panni del boss Drake, da Gregory Smith e Nick Bateman perfetti nei ruoli dei fratelli Slick e Ivan a Molly Dusnworth, moderna personificazione della dea Nemesi nelle vesti (ridotte) della prostituta Abby. Come è giusto che sia, senza speranza il finale.
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