Regia di Hiroshi Teshigahara vedi scheda film
Vicenda registrata con l’essenzialità di una cronaca giudiziaria, si lascia che tutto accada secondo un copione assurdo in cui le parti assegnate hanno la logica stravolta ma indiscutibile dei sogni. Personaggi senza nome sono animati da sentimenti estremi: rabbia, odio, rancore, delusione.
Pitfall, il primo lungometraggio di Teshigahara realizzato in simbiosi artistica con il vecchio amico Kôbô Abe, sposta in Giappone, nel distretto minerario Mitsui Miike, l’approccio stilistico e le suggestioni visive già sperimentate nel ’50 da Buñuel con Los Olvidados.
I rimandi al grande maestro sono importanti, Buñuel era un punto di riferimento costante per lo scrittore e il regista, e l’abile miscela di realismo sociale ed elementi soprannaturali creata per rappresentare i diseredati di Città del Messico ora è al servizio di una realtà sociale altrettanto deprivata e violenta.
C’é però qui come un restringersi dello spazio, un ridursi all’osso degli eventi, sentiamo l’incombenza minacciosa di un fuori scena da tragedia greca che crea tensione e attesa della catastrofe finale, ma chiude anche in una claustrofobica negazione di senso tutto quello che accade sulla scena.
Preceduto da due delitti compiuti a sangue freddo da un killer spietato, c’è uno scontro all’ultimo sangue fra due uomini, nel finale, e come nel più classico dei miti l’uno darà la morte all’altro.
Fin dall’inizio la tensione monta verso l’evento conclusivo, é il movimento tragico verso la catarsi che il silenzio delle immagini, le scarne parole, il clima di attesa stupefatta mettono in moto, ma la comprensione deve procedere secondo i percorsi analogici tipici del sogno.
Il branco di cani lontani, in controluce sul crinale della cava/discarica, pronti a far scempio dei cadaveri, e la fuga del bambino sulla lunga strada verso un orizzonte indefinito, sono il tributo più evidente al grande maestro spagnolo e dividono nettamente in due lo spazio tragico in cui il Bene e il Male prendono forma tangibile.
Il piccolo, silenzioso testimone senza nome di un mondo violento e inspiegabile, é figlio anche lui della violenza, la macchina lo riprende nei momenti chiave immobile e severo, attento e impassibile, fino alla scena finale, inattesa e sconvolgente, in cui una lacrima silenziosa scioglie il grumo di sentimenti coagulato in uno strazio allibito.
L’elemento surreale, seconda anima del film, opera una climax ascendente di orrore sapientemente distillato, così che reale e surreale convivono in simbiosi perfetta.
Vita nel sogno e sogno nella vita convergono a definire una storia di miseria e sopruso, thriller di cospirazione e storia di fantasmi.
Nello spazio arido e miserabile di un villaggio minerario abbandonato dagli abitanti, fuggiti alla minaccia di frana del monte retrostante, circondato da un acquitrino dalle rive fangose e animato solo dal roco sferragliare dei macchinari della miniera vicina, si consuma una storia di sfruttamento dei lavoratori delle miniere e di misteriosa cospirazione ai danni del responsabile sindacale.
Che sia in atto uno scontro politico/sindacale si chiarisce solo nel finale, dove pure permangono ampi margini di oscurità, mentre la chiave di lettura realistica della storia, con la sua ambientazione fortemente radicata in uno spazio e in un tempo, continua a sfrangiarsi in visioni surreali che sollevano fantasmi dai cadaveri, riempiono di abitanti ormai defunti il paese abbandonato, stravolgono la realtà in un gioco prismatico di specchi deformanti.
Vicenda registrata con l’essenzialità di una cronaca giudiziaria, si lascia che tutto accada secondo un copione assurdo in cui le parti assegnate hanno la logica stravolta ma indiscutibile dei sogni.
Personaggi senza nome sono animati da sentimenti estremi: rabbia, odio, rancore, delusione.
Solo un uomo, misterioso e impassibile, vestito di un impeccabile abito bianco, con una ventiquattr’ore manageriale da cui estrae guanti e pugnale ed in cui infila scarpe infangate estraendone candidi mocassini, si muove lucido e determinato, uccidendo senza un apparente motivo il povero minatore (Hisashi Igawa) che gira col figlioletto cercando lavoro e finendo invece in un paese abbandonato, la trappola del titolo.
Ma sul senso e sugli artefici della trappola, sull’identità dell’uomo, strano sosia di un sindacalista che appare nel finale, lì dove la storia ha la sua straniante virata neorealista, poco é dato sapere.
La vita é sogno, sembra dirci sorridendo il duo Teshigahara/ Abe Kobo, e se é vero che, saltando a pié pari gli angusti confini del sensibile, l'uomo può vedere a un tempo, con un solo sguardo, la cosa e il suo senso, le coppie dialettiche anima-corpo, ragione-immaginazione, veglia-sogno, razionale-irrazionale coesistono e si fondono e Otoshiana si pone come 'documentario di fantasia', interessante esperimento di realismo surreale che coniuga, senza attriti né forzature, l’istanza socio-politica con il tema filosofico, costruendo una rêverie carica di mistero, magnificamente concentrata nel quintetto dei protagonisti: il minatore/sindacalista, il bambino suo figlio, il rivale del sindacalista nel duello finale, la donna sola nel villaggio abbandonato e il killer in abito bianco.
Cinque mondi così vicini da decretare reciprocamente vita e morte, eppure totalmente isolati e incomunicabili fra loro secondo le normali regole del vivere associato.
Il paesaggio sonoro materico, astratto, rarefatto, a tratti selvaggio e brutale creato da Takemitsu, assolve il suo ruolo esplicativo del reale lì dove il reale si sottrae alle categorie consuete della decodificabilità.
Strani effetti sonori e accordi dissonanti, il metodo di John Cage del 'pianoforte preparato' eretto a sistema per dare durata ad un tempo che durata non ha, perché é sogno, forse immaginazione.
E, infine , la corsa del bambino lungo quella strada polverosa, vuota, ma libera, nel silenzio totale e assolutamente innaturale.
Una inquadratura sghemba ha diviso lo schermo in due piani netti, bianco e nero, un attimo prima.
Le figurine stilizzate di sei cani sul margine, un rimbombo cupo, quasi un richiamo dagl’Inferi ha riempito lo spazio.
Il bambino, piccolo essere solo e dotato di pratico buon senso, si è riempito le tasche dei dolcetti fatti dalla donna, ormai cadavere.
Il visetto è rigato di pianto sotto il largo cappello di paglia mentre addenta un dolcetto e guarda lontano.
In fondo alla strada c’è una collina e una strada bianca, bisogna correre, lasciare il paese dove l’uomo uccide l’altro uomo, i bambini non hanno colpa.
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