Regia di Hiroshi Teshigahara vedi scheda film
Pitfall, ovvero trappola. Le storie nate dalla collaborazione tra Hiroshi Teshigahara e lo scrittore Kôbô Abe raccontano di fughe impossibili, che cercano la libertà e invece finiscono con la morte, la sparizione, la definitiva condanna all’invisibilità. In questo film, a diventare fantasmi sono individui che, per la società, risultavano trasparenti anche quando erano in vita, occupando un’oscura fascia marginale, come il minatore sfruttato dal suo datore di lavoro e la bottegaia rimasta sola, con la sua merce, in un villaggio abbandonato. Sono due personaggi senza nome, che non hanno nulla alle spalle, né alcuna prospettiva davanti a sé. La loro funzione si esaurisce nel momento in cui sono serviti da pedine nei giochi dei potenti – i politici, gli imprenditori, gli amministratori della giustizia – dopodiché sono soltanto corpi da buttare via. Il terribile significato della loro esistenza si manifesta, in tutta la sua crudele evidenza, solo dopo che se ne sono andati: da spettri possono finalmente assistere inosservati ai turpi retroscena delle vicende di cui sono rimasti vittime. Il senso complessivo appartiene, nella filmografia di Teshigahara, sempre e soltanto alla dimensione dell’oltre, in cui la trasformazione della persona procura, a quest’ultima, una prospettiva nuova, dalla quale poter guardare alla propria vita dall’esterno, ottenendone una - spesso sconfortante – visione di insieme. Per i protagonisti di questo film il bilancio complessivo riguarda la loro condizione di esseri deboli e privi di diritti, dimenticati dall’umanità, i cui interessi sono rivolti altrove, verso gli obiettivi del potere, del guadagno e, in generale, del piacere materiale. Il mondo tesse le sue trame intorno al denaro, al possesso del territorio, all’affermazione personale: e loro due, invece, si fanno puro spirito, evanescenti ed inafferrabili, e quindi, ad ogni modo, completamente liberi. La poesia di questo film ha la fredda impalpabilità delle verità che si scoprono ma non si possono comunicare, e quindi aggravano la solitudine di coloro che sono i primi a sapere, ma rimangono, agli occhi degli altri, gli ultimi a cui dare credito e ascolto.
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