Regia di Hiroshi Teshigahara vedi scheda film
Kaidan Eiga che sovverte i consueti canoni della vendetta e del ritorno,per tradursi nella grottesca pantomima di una comunità di invisibili condannati all'eterna prigionia di una marginalità sociale resa definitiva dalla loro impossibilità ad interagire con il mondo e modificare la miserabile situazione delle loro condizioni materiali.
Un povero minatore con figlioletto al seguito, scambiato per un controverso sindacalista, viene brutalmente ucciso da un killer misterioso. Il suo risveglio coincide con la consapevolezza di essere finito in un limbo di presenze fatasmatiche ancora legate alla propria vita passata. Seguendo le mosse degli inquirenti e quelle del suo assassino, scoprirà alfine lo scopo del piano diabolico di cui è stato una vittima incolpevole.
Non parlarmi, non ti vedo!
Esordio nel cinema di finzione per Teshigahara Hiroshi, questa produzione della neonata Teshigahara Production segna da un lato l'adesione alle istanze politiche della Seiki no kai e dall'altro il fondamentale sodalizio artistico con lo scrittore e sceneggiatore Abe Kobo, pure lui coinvolto nella rivalsa culturale di quell'Art Theater Guild che passerà dalla distribuzione di molto cinema d'autore d'importazione e non al fondamentale supporto economico verso le piccole case di produzione costrette a confrontarsi con lo strapotere delle major e con un cinema di nicchia dalla difficile resa commerciale. Prima dell'acclamato Suna no onna (Premio Speciale della Giuria a Cannes) e delle esasperazioni formali di Tanin no kao e Moetsukita chizu che chiuderanno il sodalizio tra i due, Teshigahara anticipa con Otoshiana tutte le tematiche preminenti del suo cinema politico: una amara riflessione sulla lenta dissoluzione dell'uomo nella moderna società nipponica, travolta da un progresso industriale che acuisce le sperequazioni economiche ed accelera il processo di disgregazione dei tradizionali valori di coesione sociale (l'uomo nella buca che sceglie di agire per il bene della comunità assediata dalla sabbia), messo di fronte alle contraddizioni di una identità che si fa via via più labile di fronte ai rapporti col mondo (gli spettri umani incapaci di interagire con la realtà, ma ancora ossessionati da essa), con la propria consistenza (l'uomo e la donna impastati nella stessa matrice inorganica da cui rinascono a nuova vita), con la maschera senza volto cui dare nuova forma ed infine con la detection metafisica di un angosciante smarrimento esistenziale.
L'identità, la riconoscibilità sociale sta tutta nell'immagine, il ritratto proditorio e ingannevole che scatta come una inesorabile trappola su di un protagonista convinto di essere colui che gli altri credono una persona completamente diversa; il riconoscersi ne attesta l'appartenenza ad una realtà in cui si percepisce se stessi, come il non riconoscersi dopo ne attesta l'appartenenza ad un mondo completamente diverso: il paradosso di un dualismo dell'essere legato ai vincoli di condizioni esistenziali drammaticamente inconciliabili. Una prigionia sociale che si trascina inesorabile ed alienante di miniera in miniera; una trappola per topi che conduce i dannati della terra del sol levante dalla renitenza alla leva fino al beffardo contrappasso di una crudele dipartita, alla completa evaporazione degli uomini nel limbo senza scopo di una dimensione intangibile; un microcosmo fantasmatico confinato negli interstizi del reale che finisce per replicare i rapporti di forza e le brutture del mondo di viventi di cui si fa specchio crudele e senza scampo. Una commistione di registri che passa dal crudo realismo della condizione sociale che vuole denunciare (Teshigahara è stato assistente alla regia di Kamei Fumio) al surrealismo di un mondo di simboli di cui sembra fatto l'inferno (jigoku) dei non morti, ma allo stesso tempo la irridente allegoria di uno smarrimento sociale e culturale che ha visto il prevalere di modelli economici improntati allo sfruttamento ed alla produzione, dove ciò che conta è guadagnare la fame nella disastrata suburbe di una provincia mineraria lontana mille miglia da quell'idea di progresso che i recenti patti col nemico invasore avrebbero voluto propiziare.
Nello scenario desolato e posticcio di una ghost town abbandonata (ruderi di una contraddittoria aspirazione al benessere) la resa dei conti contro neonate istanze di rivalsa classista si materializzano come gli spettri di un protervia del potere che inganna e dissimula, eliminando nel piu classico degli agguati la vittima kafkiana di un povero Charlot con monello al seguito, fatto passare intenzionalmente per un discusso attivista sindacale. Il delitto all'arma bianca di un mefistofelico uomo in bianco è in realtà lo straniante pretesto di un thriller metafisico che gioca con i temi dell'identità e della casualità (l'immagine di cui si cerca con l'inganno, mostrandola allo stesso protagonista, la conferma identitaria è stata scattata alla vittima predestinata dal suo stesso killer - lo stesso killer suggerisce alla testimone che corrompe di descriverlo alla polizia come la sua vittima: un modesto e miserabile minatore) a riconferma di una fungibilita ontologica (diremmo entomologica, come di insetti tutti uguali) che rende il singolo personaggio (vittima o carnefice che sia) la pedina insignificante e sacrificabile di un misterioso e imperscrutabile gioco del potere.
Ma anche, diremmo, un kaidan eiga che sovverte i consueti canoni della vendetta e del ritorno, per tradursi nella grottesca pantomima di una comunità di invisibili condannati all'eterna prigionia di una marginalità sociale resa definitiva dalla loro impossibilità ad interagire con il mondo che li circonda (a differenza degli yurei della tradizione) e modificare la miserabile situazione delle loro condizioni materiali: una galleria di contrappassi fatta di storpi col collo storto, bambini abbandonati ed operai affamati che si crucciano ancora per poco delle ingiustizie di un mondo che non hanno imparato a dimenticare. Spingendo sul versante della parabola grottesca, Teshigahara descrive la surreale contemporaneità di mondi intangibili, dove solo la studiata causalità di equivoci e scambi di persona ne consente una tragica dialettica; tessere di un domino destinate a cadere fino all'inevitabile epilogo di una diabolica strategia della dissimulazione che finisce per ingrossare a dismisura le fila di trapassati che urlano con quanto fiato hanno in gola la rabbia inutile di chi parla con chi non puo' più ascoltarli.
Lo studiato sperimentalismo ed una certa ridondanza di simboli, se da un lato ne appesantiscono la intelleggibilità tematica e narrativa, dall'altro ci precipitano in un universo straniante che ha completamente scombinato qualunque coordinata naturalistica, addentrandosi nei labirintici meandri di uno smarrimento esistenziale che il sodalizio Teshigahara-Abe riesce a tradurre dalla pagina scritta con immaginifiche suggestioni cinematografiche. Presentato alla Settimana Internazionale della Critica al 16º Festival di Cannes.
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