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La casa dove abito

Regia di L. Kulijanov, J. Segel vedi scheda film

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La recensione su La casa dove abito

di spopola
6 stelle

Si segnalarono subito positivamente all’attenzione internazionale della critica (era il 1958) L. Kulijanov e J. Segel i due giovani registi  autori di questa delicata pellicola,  distribuita con discreto successo anche in Italia dalla Mirafilm. Nonostante le ferree regole  imposte dal regime che limitavano fortemente la libertà di espressione, in quegli anni il poco cinema russo che ci arrivava anche al di fuori di quello realizzato dai celebratissimi “Maestri “ ormai consacrati all’olimpo dei grandi, era infatti quasi sempre di buona qualità e veniva  per questo atteso e seguito  dal pubblico con un interesse tutto speciale (e persino con una buona dose di “conciliante” simpatia), e La casa dove abito con le sue dense emozionalità narrative non fece giustamente eccezione. Due nomi quindi da tenere d’occhio, si pensava allora. Purtroppo però non sono state possibili smentite o conferme al riguardo, perché ne abbiamo perse le tracce subito dopo (nel senso che non ci sono arrivate altre loro fatiche da valutare per poterne verificare nel tempo la tenuta stilistica o l’evoluzione). Se adesso infatti pur in mancanza di una distribuzione ufficiale, molto del sommerso può essere recuperato tramite i dvd prodotti all’estero o grazie a internet, allora purtroppo dovevamo invece accontentarsi di ciò che ci passava il convento.

Rimasto quindi come un  isolato contatto, il loro lavoro può essere valutato adesso poco più di una  “interessante” promessa sul quale non è possibile “sbilanciarsi” ulteriormente.. La casa dove abito si inserisce comunque a mio avviso e a pieno titolo, in una speciale corrente  che potremo definire di “realismo poetico” alla russa, un genere che aveva portato solo un anno prima a Cannes, alla clamorosa consacrazione  di  Michael K. Kalatozov  (regista qui di  indiscusso valore, ma poi dimostratosi meno eccelso di quanto le premesse lasciavano immaginare), con  l’appassionato Quando volano le cicogne, a cui fu assegnata la palma d’oro che  garantì per un breve periodo anche alla sua  straordinaria protagonista, Tatiana Samoilova, la visibilità e la fama di una piccola star.

In ogni caso un “filone” stimolante e abbastanza lontano dalla propaganda “offensiva”  e un po’ manichea del periodo stalinista che annunciava il “disgelo”, e soprattutto sorprendentemente commovente nel suo  mettere in scena gli aspetti dolorosi  del dramma esistenziale vissuto dagli abitanti di un paese così provato dagli anni della guerra.

Al suo apparire sui nostri schermi la critica italiana utilizzo così termini abbastanza entusiastici anche a proposito di La casa dove abito (certamente molto più generico e meno tenero e struggente dell’opera di Kalatozov presa a riferimento), una parte della quale lo definì persino un film di “derivazione neorealista”, ma  è indubbio (il tempo lo sta chiaramente ad evidenziare) che si era ecceduto non poco, proprio in questa classificazione valutativa (ogni “semplicità” narrativa genuinamente  popolaresca, presente in opere “moralmente” esemplari che si accostavano alla realtà  utilizzando accenti di elementare poesia   rinunciando ad ogni possibile enfasi espositiva per restare invece ancorati al più dimesso tono del quotidiano, venivano superficialmente catalogate così, senza andare molto per il sottile, perché era più semplice e meno impegnativo che spingersi in una analisi più articolata e profonda) . Nel caso specifico infatti credo che nella migliore delle ipotesi si sarebbe semmai dovuto parlare di  “naturalismo rosa”, magari  di ascenda deamicisiana (ma i buoni sentimenti che traspaiono sono dovuti alla necessità di essere positivisti), anche se oggettivamente l’ambientazione, le storie, il rapporto antropologico con la terra e le origini c’era e rimane, ed è di tale portata che potrebbe incontrare ancora oggi se fosse  qui fra noi, l’incondizionato  consenso per esempio di un Carlo Levi  che se lo avesse potuto visionare – cosa non impossibile visto che è venuto a mancare solo nel 1975 – sicuramente sarebbe stato incantato da storie  come quelle qui narrate, che assumono  tutta l’importanza un po’ rarefatta del simbolo anche per la loro particolare ambientazione rurale.

Fatte le debite proporzioni e prese le necessarie distanze, mi sembra in ogni caso (ed è per questo che parlo di Levi) di riconoscerci  dentro piccole tracce di sotterranei richiami e attinenze, perché come nei grandi libri dello scrittore che  hanno esplorato  e denunciato le condizioni del nostro sud del dopoguerra (parlo in particolare de Le parole sono pietre, L’orologio e di Cristo si è fermato a Eboli) anche in questa pellicola russa si parla alla fine di una terra «grigia, virtuosa e spoglia» dove «il futuro ha un cuore antico» con lo stesso vigore, ma  dove semmai la differenza consiste nel fatto che nel film  non è pienamente messa a fuoco la responsabilità politica  della condizione.

L’anima profonda della vicenda narrata (anzi delle storie, perché si parla sì di un nucleo familiare, ma sono i singoli personaggi  - ciascuno con il proprio bagaglio di esperienze, di lutti e di trasformazioni - a fare la differenza) è comunque strettamene connessa con qualcosa che è profondamente radicato fra la gente di quel paese e si alimenta nella sua cultura, visto che fra tutte, quella che giganteggia di più è proprio la figura straordinaria della madre,  ruolo “russo” per eccellenza già magnificamente miticizzato in letteratura da Gorkij e in cinema sopratuttto da Pudovkin (ma anche dal “calligrafismo ideologico” de Il giuramento  di Ciaurelij).

La madre dunque, personaggio umile e dimesso, assolutamente centrale dentro una famiglia di ascendenza patriarcale (ma dove il padre è poco più di una figura da “rispettare” a cui si deve obbedienza più che amore),  sorretta da un istintivo senso della vita e dei rapporti, unico vero insegnamento e guida – anche protettiva – per la figliolanza.

Ambientato in un arco di tempo abbastanza lungo (si va dal 1935 al 1945), il racconto dei fatti  è però all’atto pratico un qualcosa di  ibrido che non assume una forma  mai totalmente definibile e riconoscibile: non riesce in effetti ad essere vera e propria cronaca, ma non può nemmeno ambire a farsi declinare in “romanzo” in immagini, poiché della prima ha solo qualche minima, marginale osservazione, e del secondo, gli manca l’epicità del respiro con una  storicizzazione degli avvenimenti  che serve soltanto a connotare la drammaticità delle evoluzioni  e dei cambiamenti delle  singole presenze che compongono il nucleo familiare oltre  a quelle del padre e della madre a cui ho già accennato rimanendo spesso solo “vicenda privata”: la figlia Katia che sposa un giovane autista di nome Nikolai, avrà una figlia e sarà destinata  a una tranquilla e serena esistenza; il primogenito Kostia,, un uomo chiuso e tormentato sempre in crisi con se stesso dalle notevoli difficoltà a confrontarsi seriamente con la vita, e il più giovane Seriosgia, più aperto e disponibile, che ama con tutta la timidezza dell’adolescenza, la ragazzina del piano di sotto, Gaia. Con la famiglia coabita anche una giovane coppia, il geologo Dimitri Davidov e la moglie Lidia, i cui destini si intersecheranno drammaticamente con quelli della famiglia ospitante. Quando scoppia improvvisa e funesta la guerra, infatti tutti gli uomini saranno richiamati e dovranno partire per il fronte per essere impegnati nelle strenue battaglie di difesa. I lutti saranno pesanti perché non tutti ovviamente  sopravvivranno: non torna il geologo e nemmeno il capofamiglia, e anche la giovane Gaia trepidamente amata da  Seriosgia soccomberà, vittima innocente di un crudele bombardamento.

Eppure la vita continua nonostante tutto, ed è allora così che alla fine il corrusco, tormentato Kostia che durante una breve licenza aveva sedotto Lidia approfittando della sua debolezza, si deciderà dopo molte incertezze e turbamenti a sposarla per riparare e consolare definitivamente la donna della sua prematura vedovanza. Sarà poi a Seriosgia che verrà passato il timone del positivismo, (memore degli insegnamenti ricevuti da Davidov, ne proseguirà con successo l’attività do geologo così importante per la rinascita), mentre su ognuno di loro continuerà a campeggiare vegliando e incitando, la figura della madre, dolente eroina,  premurosa consigliera e burbera amica.

Fra i momenti più memorabili della pellicola, ottima la sequenza della mobilitazione, oltre alle bellissime scene di Gaia e Seriosgia nel gelido appartamento abbandonato, e  della passeggiata dei due giovanissimi innamorati. Anche l’episodio dell’adulterio e interessante e ben risolto: ha semmai  il torto di ricordare troppo da vicino anche nei moduli espressivi, quello analogo del film di Kalatozov dell’anno precedente (e non può essere solo una coincidenza).

Incerta invece la morale dell’opera che parrebbe potersi riassumere nella frase : La vita è una sola: ora lo capisco bene, ma è troppo tardi, se l’espressione non risultasse in parte contraddetta da un finale decisamente troppo ottimista anche se non del tutto costruttivo (ma il “positivismo” ad ogni costo era uno dei pegni da pagare al sistema per avere quantomeno il permesso di poter circolare  anche all’estero, e quindi è un limite che possiamo tranquillamente accettare senza scandalizzarsi troppo).

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