Regia di Lee Joon-Ik vedi scheda film
Blades of Blood è il suggestivo e indovinato titolo che è stato scelto per inaugurare a Firenze il Koreafilmfest ) di quest’anno.
Presentato al cinema Odeon il 25 marzo scorso, il film ha riscosso un meritato successo mettendo in evidenza eccezionali caratteristiche spettacolari che lo renderebbero interessante (e credo persino particolarmente appetibile) anche per una distribuzione più generalizzata e capillare nelle nostre sale ben oltre il selezionato pubblico di “nicchia” delle rassegne.
La regia è di Lee Joon-ik, che con questa pellicola “in costume” si approccia per la prima volta al genere storico (e lo fa con una invidiabile e consumata spericolatezza che contribuisce a rendere entusiasmante il risultato, fra serrati e ben coreografati combattimenti all’arma bianca, esposizione estremizzata di pulsioni e sentimenti, scenografie di particolare suggestione visiva e costumi di altrettanta visionaria potenza, oltre naturalmente alla consueta, meticolosa cura riservata a “forma” e “contenuti”).
Eclettico nome dell’interessante e sempre più emergente cinematografia coreana, Joon-ik è attivo nel settore fino dal 1987 (ha diretto in quegli anni Kid Cop, ed ha soprattutto fondato la CineWord, una casa di produzione che ha contribuito a rendere possibile la realizzazione di numerose pellicole di successo, fra le quali The Spy di Jang Jin e Ho, Dharma! di Park Cheol-kwan). L’effettiva consacrazione come regista comunque, arriverà per lui solo nel 2003, grazie al clamoroso successo di cassetta ottenuto in patria dal suo Once Upon a Time in a Battlefield (oltre 3 milioni di spettatori). Seguiranno, il melodrammatico The King and the Clown che diventerà un vero e proprio “cult” (2005); il toccante e divertente Radio Star (2006); la commedia The Happy Life (2007) e Sunny (2008), altro fondamentale titolo del suo percorso artistico, che racconta una struggente storia d’amore ambientata durante il travagliato periodo del guerra del Vietnam.
Dalla osservazione analitica di storie con riferimenti diretti alla contemporaneità (più o meno su questo versante erano orientati tutti i suoi precedenti titoli), è così passato a realizzare nel 2010 con uno spregiudicato, temerario cambio di marcia che rende ancor più evidente la sua personalissima “idea di cinema”, questo Blades of Blood, affascinante film in costume ambientato nel 1592 in piena era Joseon (e sarà interessante verificare a questo punto l’evoluzione e gli approdi dei suoi successivi lavori, a partire da Pyongyang Castle, già nel frattempo portato a termine, ma del quale non ho al momento alcun riscontro documentato né in relazione al contenuto, né tantomeno agli esiti critici avuti).
Il cambio di registro è davvero totale dunque, ma per molti versi sembra guadagnarne l’ispirazione che diventa in quest’opera, ancor più inventivamente feconda, nel mettere in scena un racconto che narra la storia di una ribellione al potere costituito, con conseguente tentativo di rivolta, ma portando in primo piano interessanti connotazioni etiche, a partire dalla “pericolosa” importanza dell’utopia, soprattutto se se si snatura e degenera nella successiva disgregazione degli ideali, come accade in questo caso, dove l’attaccamento estremo ed ossessivo a un sogno, per quanto nobile possa essere stato in partenza, diventa a un certo punto insano ed accecante desiderio di potere che prevale su ogni altra spinta emotiva.
Il protagonista è Lee Mong-hwak un coraggioso e ambizioso “guerriero” stanco di vedere la sua Corea sottomessa al dominio straniero che decide di mettersi a capo di una rivolta di ribelli per condurre una efferata azione “bellica” che possa assumere la forma (e soprattutto acquisisca il “peso” e il senso) di un vero e proprio colpo di stato necessario in primo luogo per scacciare gli usurpatori, e in seconda istanza di consentire a lui di diventare a sua volta indiscusso re di quella terra. Il percorso sarà irto di ostacoli e di battaglie, e il guerrigliero ostinatamente deciso a conseguire il successo, non si periterà a seminare morte e distruzione sulla sua strada, uccidendo chiunque osi in qualche modo opporsi a quella che è diventata la furia cieca di un’assillante “bramosia di potere”. Saranno molte le vittime (anche innocenti), e fra queste, il padre di Kyeong-ja, un ragazzo a sua volta ferito quasi mortalmente ma che riuscirà miracolosamente a riprendersi con l’aiuto del cieco Jeong-hak Hwang.
Una volta guarito dalle atroci ferite riportate, il giovane con al seguito il cieco che lo ha salvato, si metterà a sua volta sulle tracce di Mong-hwak con l’intento di raggiungerlo, affrontarlo e fargli pagare così il fio per l’uccisione del padre. Nel periglioso viaggio di avvicinamento, si unirà al gruppo di “vendicatori” anche Park Ji, innamorata di Mong-hwak, ma così spaventata e delusa dall’inestinguibile sete di potenza dell’uomo che ormai sembra devastargli il cervello, da dichiararsi disponibile, proprio in nome di un sentimento così crudelmente tradito dall’amato, persino ad ucciderlo, pur di non vederlo impazzire definitivamente nell’insano tentativo di portare trionfalmente a compimento il suo delirante e sanguinoso progetto.
Come si potrà intuire da questa succinta esposizione dei fatti, il film è denso di suggestioni e si metafore. La smodata bramosia di Lee Mong-hwak nel perseguire il suo ideale di sangue e di ribellione, porterà infatti l’uomo a perdere gradualmente non solo la ragione, ma anche l’amore, diventando però a sua volta preda di un altrettanto distruttivo desiderio di vendicativa rivalsa, quello che armerà la mano di Kyeong-ja, che ha visto morire barbaramente trucidato il proprio padre, l’unica cosa che gli rimaneva della sua famiglia, e che si riverbera anche sulla sua amata di un tempo.
L’effetto “domino” che ne deriva, innescherà così una terrificante, irragionevole e progressiva spirale di morte e di odio davvero inestinguibile, che travolgerà tutti i tragici personaggi che si muovono sullo sfondo di una terra devastata dalle guerre, compresa appunto Park Ji, nella cui anima albergava un tempo solo il caldo sentimento dell’amore.
Al di là della storia dei singoli, qui si narra però anche quella di un popolo in rivolta contro una sottomissione ritenuta ingiusta e troppo a lungo subita, una folla utopicamente determinata a raggiungere una ipotetica libertà e scientemente sobillata (e in questo caso quasi messa in mezzo) da Mong-hwak che per raggiungere i suoi personali obiettivi di potere non si periterà a strumentalizzarla illudendola con la falsa speranza di poter veramente trovare in quella lotta una identità nazionale di “indipendenza” e definitivamente svincolata dalle pesanti ingerenze (ed influenze) delle vicine Cina e Giappone.
Il forte spaccato dei sentimenti contrastanti resi più cruenti dagli scontri e dalle battaglie, fa così trasparire anche una chiave di lettura più “politica”tutt’altro che secondaria del discorso che, inquadrando anche storicamente gli avvenimenti, finisce per fornire una importante traccia “ricostruttiva” di un passato lontano, strettamente connesso con la ricerca delle radici di un’identità condivisa di quel paese-nazione, così necessaria per la sua gente.
Ben sorretta dalle furiose interpretazioni degli interpreti e dal partecipato pathos che riescono a trasmettere, la pellicola può contare anche sulla sfolgorante resa cromatica di una fotografia di prepotente luminosità ben giocata sulle delicate sfumature dei toni, e sull’altrettanto adeguato supporto fornito dalla colonna musicale, caratterizzanti elementi primari che contribuiscono davvero a rendere il tutto di forte e travolgente impatto.
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