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Nothing But a Man

Regia di Michael Roemer vedi scheda film

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La recensione su Nothing But a Man

di (spopola) 1726792
8 stelle

Nothing But a Man (Soltanto un uomo) di Michael Roemer è del 1964, ed è passato a suo tempo e con discreto successo, anche da Venezia (se non ricordo male, fu proprio la  XXV Mostra d’Arte Cinematografica che si svolse in quell’anno ad ospitarlo in Laguna) ma nonostante ciò, ne sono rimaste pochissime tracce qui da noi.

Film USA di produzione indipendente, è anche l’opera prima (e forse quella più importante e significativa), di  Michael Roemer, regista di origine tedesca poi trapiantato in America,  che si è distinto soprattutto nella realizzazione di documentari e opere didattiche.

Anche in questo caso, e non molto dissimilmente da altre pellicole “off” del periodo realizzate in America, il tema centrale è quello dell’intolleranza dovuta al differente colore della pelle. La pellicola che racconta una “piccola storia” di quotidiana sopraffazione, si può dunque a buon diritto definire un’indagine d’ambiente molto ben articolata  sulle gravissime problematiche strettamente connesse con la questione razziale che erano particolarmente drammatiche negli anni a cavallo dei ’60 del secolo scorso (non che adesso sia stato tutto risolto ovviamente, ma qualcosa nel frattempo è fortunatamente cambiato, per lo meno da quelle parti, come ben abbiamo potuto constatare).

Singolarmente, dopo un periodo di oblio anche negli USA, il film fu riscoperto e rivalutato con un certo clamore, nel 1993 (Hal Hanson sul Washington Post, scrisse addirittura che pur trattandosi di un film così lontano nel tempo come datazione effettiva, poteva senz’altro considerarsi e a buon diritto, una delle migliori opere uscite o  rieditate in quell’anno, e meritava per questo suo essere ancora attuale, maggiore attenzione di tanto “ciarpame” contemporaneo).

Nothing But a Man ha ovviamente tutte le caratteristiche (intese come “pregi”, ma anche “limiti” e persino “difetti”, della cinematografia indipendente Off-Hollywood così vivacemente attiva nei decenni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Pur trattandosi di un’opera “a soggetto”, è stata infatti girata con uno stile quasi documentaristico e una forma tecnica molto semplicizzata, una modalità che contraddistingue e unifica tutti  i numerosi lavori che hanno caratterizzato quel particolare “momento” creativo pieno di fermenti e di stimoli, da Il piccolo fuggitivo a Ombre, da I fucili degli alberi a David e Lisa e a tutto ciò che venne prodotto dalla feconda ma troppo breve corrente avanguardistica newyorkese.

La vicenda è ambientata in uno stato dalle forti tensioni come l’Alabama, uno di quelli dove il pregiudizio razziale che oppone(va) i bianchi a i negri, e(ra) più diretto e feroce, come ben sappiamo.

Il protagonista  è Duff, un giovane di colore che fa parte di una squadra di operai impegnati in un duro lavoro per le ferrovie. La sua è una vita passata quasi sempre in solitudine, priva cioè  di veri e propri rapporti umani, al punto di non essere riuscito nemmeno a trovare conforto nell’affetto duraturo e nel sostegno di una donna. Qualcosa cambierà quando incontra una giovane maestra – anch’essa di colore – di nome Josie, che lo ammira perché vede in lui il tipo di negro indipendente e fiero che ha sempre sognato, uno uomo cioè tutt’altro che disponibile a restare per sempre sottomesso alle regole imposte dalla “pretesa” supremazia della comunità bianca. Reciprocamente attratti, e soprattutto “solidali” nelle idee e nei programmi, i due si sposeranno, ma l’unione matrimoniale presenterà subito dei gravi problemi di tenuta dovuti soprattutto agli inevitabili “condizionamenti” dei bianchi, che non possono che riflettersi pesantemente su un “ribelle” come Duff,  “marchiandolo” con incancellabili  “connotazioni” di pericolosità che ne definiscono sempre più l’emarginazione.  Anche se nessuno lo tocca o gli fa del male fisicamente, su di lui viene infatti esercitato un linciaggio quotidiano non “violento” ma analogamente efficace, che determina persino il suo licenziamento dal lavoro. Viene così a poco a poco messo al bando sia psicologicamente che socialmente. Ovviamente si crea uno stato di rancorose tensioni che pesa gravemente sui rapporti con Josie, talvolta ancora molto teneri e partecipati, ma sempre più spesso bruschi e conflittuali, perché senza un lavoro è davvero difficile andare avanti con la necessaria serenità. Quando la pressione dei bianchi nei suoi confronti, diventerà insostenibile e soprattutto insopportabile, l’uomo non avrà quindi altra alternativa che immaginare di dover seguire a sua volta una strada che è poi quella che il popolo negro è stato costretto a imboccare da sempre: andare lontano per salvarsi e non soccombere, fuggire e quindi in qualche modo accettare la resa. Ma al momento di mettere in atto un progetto tutto sommato “vigliacco”, non avrà poi il coraggio di arrendersi anche perché ha la piena consapevolezza di un dovere primario che non si sente di eludere, quello di dover preservare e difendere non solo la sua donna, ma anche il  bambino che sta per nascere dal suo ventre. Il destino (e la  sorte) di Duff,  dunque non può divergere da quello della sua famiglia al quale è legato a doppia mandata, e il suo futuro “obbligato” è quello dell’impegno nella lotta per cercare di acquisire tutti i diritti così crudelmente negati che competono anche alla sua razza,  per arrivare ad essere finalmente  considerato un “paritetico” essere umano, anche se con un colore diverso di pelle.

E’ straordinario vedere come sia stato proprio un bianco, per altro europeo e quindi cresciuto sostanzialmente lontano da problematiche così radicate di contrapposizioni cariche di odio e di rivendicazioni mai accolte, ad avere avuto la capacità di calarsi con  tanta perfetta aderenza dentro la sofferta psicologia di una inaccettabile condizione di vita  come quella legata a questo tipo di discriminazione sociale, e soprattutto di essere riuscito a rappresentarla con altrettanto appassionato vigore. Roemer ha infatti  giustamente indirizzato il suo sguardo sugli aspetti più dolenti generati da quella incivile segregazione discriminante, portando avanti un tipo di analisi che privilegia proprio l’aspetto psicologico del problema, e credo che sia dovuto a ciò se il suo impegno “politico” per molti versi datato, risulta ancora oggi di assoluta e straordinaria significanza, tanto da reggere molto bene all’usura del tempo, così  naturale, spontaneo e partecipato com’è, scevro da ogni possibile sovrastruttura anche ideologica di tipo intellettualistico.

Il regista infatti racconta e rappresenta i fatti con una schiettezza che rasenta la “condivisione” empatica, col suo immedesimarsi fino in fondo nel problema che mette in scena, che giudica e condanna come un vero e proprio sopruso verso i diritti di eguaglianza  che dovrebbero essere uguali per tutte le razze e le etnie, e quindi riguardare l’intero genere umano senza alcuna distinzione o pregiudizio. L’aver scelto una storia paradigmatica come quella di Duff, lo aiuta notevolmente poiché è certamente disumana, ma non presenta punte di particolare tragicità e quindi è “perfetta” per riassumere artisticamente senza eccessi grandguignoleschi, un mondo inquieto, vibrante, sofferente, con tutte le palesi ingiustizie, i risvolti e le implicazioni che si porta dietro.

Forse se un difetto può essergli imputato, è quello di aver optato per un eccessivo ricorso all’utilizzo dei primi piani che ingolfano a volte un poco il ritmo rendendolo meno fluido e immediato, ma è stata probabilmente la scarsità delle risorse disponibili a costringerlo a fare questa scelta, che è certamente un compromesso, ma che consente comunque di enucleare direttamente dai volti, dai gesti, dagli sguardi,  dalla a volte rassegnata e più spesso fiera espressione dello sguardo, la ribellione profonda e il disagio, e quindi di raggiungere ugualmente anche se in maniera indiretta, l’obiettivo prefisso, e in questo Roemer è davvero inflessibile nel dichiarare attraverso le immagini, la sua ferma condanna senza appello né attenuanti. Non scevro dallo scegliere a tratti toni fortemente polemici (vedi la scena in cui Duff, mentre svolge il suo lavoro presso un distributore di benzina, si scontra  duramente con un gruppo di bianchi che sbeffeggiano la moglie) è tuttavia di una efficace pregnanza che non scende mai nel pamphlet,  capace di far diventare lo spettatore un attento, coinvolto e partecipe osservatore “critico”, perchè anche le pagine meno riuscite, sono riscattate dalla dolente cadenza quasi liturgica che accompagna tutto il lavoro e soprattutto dalla straordinaria efficacia dei due interpreti, il bravissimo Ivan Dixon  che “centra” perfettamente il bersaglio regalandoci il ritratto a tutto tondo di un Duff  “offeso” ma anche indomitamente battagliero, e la dolcissima Abbey Lincoln, una Josie di grande naturalezza  e di forte spessore anche empatico.

Possiamo allora a buon diritto dichiarare che ci troviamo di fronte a una delle più sensibili e riuscite pellicole sulla vita  della comunità negra nell’America razzista degli anno ’60, proprio per l’attenzione e la sobrietà posta nel narrare i fatti, una qualità che, per la sua totale assenza di retorica, la fa considerare, e rimanere ancora oggi, nonostante il variare dei tempi e delle “stagioni”, una potente e necessaria opera di denuncia.

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