Regia di Carl Theodor Dreyer vedi scheda film
Commedia sì, ma di tono amaro. Cambia il segno impresso dal regista, ma La vedova del pastore somiglia singolarmente al Dies Irae (1943). Sebbene il protagonista ricordi una via di mezzo tra il Buster Keaton di Accidenti che ospitalità! e il primo Charlot, c'è ben poco da ridere. Come nel capolavoro girato durante l'occupazione nazista della Danimarca, la funzione di pastore di una comunità protestante è svuotata, nelle aspirazioni del giovane protagonista e della sua promessa sposa, così come nella vecchia vedova, che ha già sotterrato tre mariti parroci, di qualsiasi tensione alla divinità. L'aspirazione dei due giovani, che si presentano come fratello e sorella, è quella di trovare un posto di lavoro sicuro (il famoso posto fisso) per potersi sposare, mentre la vecchia Margarete vuole rimanere la padrona della casa e di tutti gli oggetti in essa custoditi. Per di più, l'anziana, come la Marte Herlofs di Dies Irae, è in fama di stregoneria, tanto è vero che, prima di morire, inteneritasi per l'amore dei due giovani, consiglia loro di mettere un ferro di cavallo sulla porta di casa e di gettare dei semi di lino per impedire alla sua anima di tornare a far loro del male. In tutto questo, Dio scompare dall'orizzonte dei personaggi e la religione si riduce ad un insieme di rituali senza vera sostanza. E l'unica sequenza veramente comica è quella di Söfren che dietro ad un telaio (una scena che ne richiama una fondamentale, ancora di Dies Irae) intenderebbe corteggiare Mari, senonché dall'altra parte si trova invece l'anziana serva Gunvor, la quale lo smaschera e poi gli si rivolge scandalizzata, dicendogli «devi sapere che io sono una ragazza per bene!».
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