Regia di Masahiro Shinoda vedi scheda film
Bische fumose o corridoi asettici di hotel,scorci di club privé o angusto cortile di carcere,gabinetto dentistico o nursery di una clinica ostetrica,lo spazio è teatro di un incubo molto reale, la vita di un uomo e una donna per cui esistere non riveste alcun interesse.
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Decostruzione prospettica degli interni,espressione geometrica di una nuova simmetria di punti focali sfuggenti a creare sensazione di irrealtà, lo stile visivo di Shinoda fa di Kawaita Hana un hard boiled riflessivo, il baricentro é nell’anima di Muraki (Ryô Ikebe) e Saeko (Mariko Kaga), nel loro incontro fatale ed inesploso, stretto nell’intervallo fra due omicidi in una città, Tokyo, funereo regno di ombre, neon grondanti pioggia, spazi geometricamente definiti da sezioni irregolari, strade, vicoli, binari e cavalcavia svuotati di vita, regno solitario delle scorribande in macchina di Saeko.
Il nichilismo esistenziale di Muraki e Saeko é la chiave della loro reciproca attrazione.
Con dosaggio attento, da purista dell’immagine in movimento, Shinoda li muove in totale neutralità di toni, nulla di esibito né proclamato, vivono la loro vita sullo sfondo di tutte le componenti ambientali canoniche.
Ma, semplicemente, non ci sono.
E allora si attraggono, ma solo per guardarsi l’un l’altro compiere gesti sempre più estremi, quasi elettrochoc privi di contrazioni nervose, fino allo shaw down finale, inatteso come si conviene ad un gioco.
Giocare d’azzardo con irridente temerarietà come Saeko e pertanto vincere, sempre di più, e nulla intorno che esploda, l’entropia regna sovrana. Correre una pazza gara automobilistica notturna au bout de souffle e fermarsi per ridere, ma senza allegria. Uccidere a freddo un uomo sventrandolo, sequenza in slow-motion priva di audio naturale, sfondo sonoro è When I am laid, am laid in earth da Dido and Aeneas di Henry Purcell, un mix di orrore e bellezza.
Infine, chiudersi di nuovo in carcere, da dove desiderare, ora sì, “ con il corpo e con l’anima” la piccola Saeko dal viso di bambola, ora che nulla può più essere, e questo fa sembrare insensata la decisione finale di Muraki di compiere l’omicidio che lo riporterà dentro, si direbbe il gesto di un folle se non fosse, invece, la scelta pura, estrema, il non essere come atto supremo di volontà.
Un condannato a morte non é fuggito, anzi, é volontariamente rientrato in carcere.
Per far questo, chiuderti in un carcere fittizio, la vita ha bisogno di espellerti da quello vero, il tuo.
Muraki prima, Saeko poi, non hanno nessuna posta in gioco nella loro vita, perciò possono giocare d’azzardo e vincere la loro partita, il carcere o la morte come premio.
Shinoda crea una storia piena di dettagli di forte impatto realistico, ci illude fino in fondo di essere di fronte ad uno yakuza movie ai confini con il noir alla Fritz Lang, che va in fibrillazione con sequenze alla Melville.
Ma i personaggi che plasma sembrano usciti dalle pagine di Gide e Camus.
Messi di fronte all’inconsistenza materiale e morale di un mondo in cui denaro e potere sono gli unici feticci a cui sacrificare, gli uomini e le donne di Shinoda esprimono il non senso irredimibile del vivere attraversando il loro spazio vitale immuni da ogni tentazione di adeguamento, privi di cedimenti che li condannerebbero alla normalità.
La voce esterna di Muraki, appena uscito dal carcere dove ha scontato tre anni per omicidio, dà il via alla composizione circolare del film sull’incipit.
“Tokyo... Dopo tre lunghi anni.Mi fa girare la testa.Guarda.Perché così tanta gente affollata in minuscole gabbie simili a scatole?
La gente...Come strani animali.Cosa li spinge ad andare avanti? Sembrano mezzi morti, facendo finta di essere vivi.Che c'è di così sbagliato nell'uccidere uno di questi stupidi animali? Ho scontato tre anni...Questo è il mio territorio...Con nessun ulteriore pensiero sono tornato.Una strana sensazione.Un carro funebre. Qualcuno deve essere morto...Niente è cambiato...Sarà lo stesso anche là...”
Muraki (Ryô Ikebe) e Saeko (Mariko Kaga) avrebbero tutto, bellezza, forza, aura drammatica, per essere eccezionali interpreti di una storia di passioni, emozioni profonde, coloriture sentimentali e tensioni tragiche.
Non sono neppure maschere vuote, al loro sguardo Shinoda affida il compito di rivelarli come esseri umani, uomini al di là del bene e del male, immuni da sentimenti comuni, come anestetizzati, ma non disumani.
Il gesto estremo e totalmente gratuito é quel che li tiene al mondo, vicini, nell’attesa che finisca il gioco.
Il tema del gioco é infatti centrale, é l’hana fuda, gioco d’azzardo con carte che hanno dodici abiti dai nomi bellissimi di fiori odorosi.
Chiusi in fumose tane clandestine, accovacciati a terra in uno spazio rettangolare, i giocatori puntano spinti dalla litania meccanica e velocissima del battitore.
Mazzi di yen cambiano proprietario in un carosello vorticoso,i giocatori assistono immobili, una tensione inebetita li domina e li trattiene.
E gioco, quello del regista, é confezionare la storia come un chilometrico murale diviso in pannelli di geometrie sghembe, tenute insieme da legami impalpabili. E’ gioco far apparire due volte La Gioconda proiettata a grana grossa sul fondo di una nicchia, incorniciata dalla rumorosa assunzione di brodo dei due capi yakuza seduti a tavola. Gioco, infine, riprendere un boss yakuza dal dentista alle prese con la salute dei suoi denti o entrare nella nursery del reparto ostetricia dell’ospedale dove sta nascendo la piccola erede del capo e fissarlo al colmo di una genitoriale commozione.
Esperienza inedita nel 1964, il cinema di Shinoda diede una virata geniale al cinema giapponese e fu, con altri illustri colleghi, la New Wave che aprì la strada a tanti.
Fra gli eredi più diretti del suo stile e straordinaria forza di seduzione ci piace citare Kitano con il suo Sonatine.
Una sceneggiatura memorabile, nata dalla collaborazione di Shinoda con Masaru Baba e Shintaro Ishihara, conferisce ai personaggi un imprinting inconfondibile, fatto di poche battute e molti silenzi.
“Non ho alcun piacere dell'alba. Adoro queste notti maledette” dice a Muraki la giovane Saeko, e la donna è tutta in queste parole, singolarmente stridenti nel contrasto con il suo aspetto che emana fragilità e dolcezza. Muraki l’ascolta impassibile, avvertiamo la sua attrazione chiusa in un bozzolo di incomunicabilità.
Rappresentare il nulla, scolpire il vuoto esistenziale, mettere da parte le categorie del male e del bene. Questo Shinoda mette in scena con grande eleganza formale, smitizzando l’immagine convenzionale del gangster col rivelarne il nichilismo disperato e il vuoto esistenziale.
Del repertorio yakuza sgrana tutti i simboli e i rituali, li fa diventare marchingegni surreali, feticci assurdi, come il dito mozzato, una delle pratiche consuete di autopunizione, che il giovane neofita consegna in una scatoletta-regalo a Muraki e questi butta via con noncuranza.
Non ci sono spargimenti di sangue nè scontri a fuoco in Kawaita Hana, ma la violenza intride ogni fotogramma.
Nulla che riscatti nulla, empatia al grado zero.
E’ una triste umanità guardata in filigrana, un campionario in provetta sotto la lente di un entomologo freddo e distante, che dissemina la scena di orologi ticchettanti a scandire il tempo, quasi che senza misurarlo si rischi di essere proiettati nel vuoto.
Kawaita Hana, fiori secchi, pallidi, come quelli dei morti, quando avvizziscono.
La colonna sonora di Toru Takemitsu é parte integrante di questa meditazione su vuoto, solitudine, spaesamento e alienazione. Soluzioni timbriche e ritmiche affidate quasi esclusivamente a musica percussiva, sound di trame sonore stranianti fatte di accordi graffianti e perforanti, ogni traccia di identificazione armonica é annullata dalla serialità che, sola, controlla l'imprevedibile, rende plausibile il vuoto, fonde in un unico tappeto sonoro dramma sociale e catastrofe esistenziale.
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