Regia di Stephen Quay, Timothy Quay vedi scheda film
Broom è, in inglese, un termine bisenso: da un lato denota il dente di leone (di cui, in questo film, vediamo comparire i caratteristici soffioni), dall’altro indica la scopa, che, in senso figurato, è una metafora per tutti quegli zelanti burocrati che si compiacciono di applicare alla lettera il codice allo scopo di fare pulizia. Il pensiero dei fratelli Quay è rivolto, in particolare, al responsabile dell’ufficio immigrazione che avrebbe voluto rimpatriarli a causa di un visto scaduto: il luogo dell’episodio, il palazzo londinese di Lunar House, è diventato, in uno dei titoli alternativi di questo cortometraggio, Hunar Louse, dove louse significa pidocchio. Intorno a questo criptico riferimento agli abusi di potere i fratelli Quay ricostruiscono, in maniera surreale, la storia della leggendaria lotta tra il sovrano Gilgamesh, che regna da tiranno sulla città sumera di Uruk, ed Endiku, creatura inviata dagli dei a difesa della popolazione oppressa. Questo cortometraggio è incentrato sulla seconda tavola della leggenda, in cui si narra l’incontro tra Endiku e la prostituta Shamkat, preparato da Gilgamesh a mo’ di trappola, per privare l’avversario dei suoi poteri soprannaturali. Il mito viene ridotto ad un gioco di pupazzi colorati e di oggetti semplici, ma plasmabili, che appaiono e scompaiono, magicamente, all’interno di una stanza aperta su due lati ed apparentemente sospesa nel nulla, ed immersa nella più totale oscurità. Questo luogo squadrato ed essenziale diviene una sorta di cassetta degli attrezzi, in cui ogni aspetto del racconto è ricondotto ad una costruzione dal carattere in parte ludico, in parte artigianale, ed effettuata con le forbici, la squadra, i chiodi. In questo bricolage fantastico, in cui Gilgamesh è una sagoma ispirata a Picasso che si sposta su un triciclo realizzato col meccano, vige la più completa libertà d’innesto tra gli stili ed i registri linguistici. La dissonanza è resa impossibile dal dinamismo della composizione, che contagia l’immaginazione, inducendovi una flessibilità pressoché illimitata. Tutto sta bene insieme, perché nel quadro non v’è regola che vieti la pacifica convivenza di elementi così diversi: non esiste, alla base, alcun modello di riferimento, alcun tono dominante a dirigere le danze. Di conseguenza, ogni cosa contribuisce a proprio modo ad un’armonia che conosce, come unico principio estetico, quello dell’assoluta eterogeneità.
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