Regia di Cristi Puiu vedi scheda film
Il realismo perfetto. Quello che rimane attaccato ai dettagli degli eventi senza trascurarne alcuno, e trattandoli tutti allo stesso modo: un racconto fluido e privo di accenti interpretativi, che è una fedele e puntigliosa cronaca in diretta della vita. Dante Remus Lazarescu, di sessantatré anni, è un professione universitario in pensione che divide il suo piccolo appartamento con tre gatti: da quando sua moglie è morta e la figlia si è trasferita in Canada, la sua esistenza si trascina tra la solitudine e l’alcol. Un sabato mattina l’uomo si sveglia con un forte dolore alla testa, che nulla riesce ad alleviare. A ciò si aggiungono ripetuti attacchi di vomito. Verso sera Lazarescu si decide a chiamare la guardia medica. Da quel momento la macchina da presa segue da vicino ogni istante della sua odissea sanitaria, durante la quale viene visitato ripetutamente, ricevendo ogni volta una diagnosi diversa, e viene fatto rimbalzare da un ospedale all’altro, tra perdite di tempo, controversie tra medici e incomprensioni varie. La storia non è emblematica ma non eccessiva, e descrive, in un quadro di generale disorganizzazione, una verosimile mescolanza di rabbia polemica, di distaccata rassegnazione e di buona volontà che non si arrende. La professionalità, quando viene esercitata in condizioni sfavorevoli, risponde in vari modi, ognuno dettato dal rapporto che il singolo operatore ha col proprio lavoro e con la propria coscienza. Tutti, in buona sostanza, si prendono cura del povero Lazarescu, ma ciascuno secondo il proprio carattere e la propria individuale visione del mondo, senza preoccuparsi di coordinarsi col resto del sistema. La situazione di emergenza che fa da sfondo alla vicenda – un incidente stradale con decine di feriti – è il banco di prova sul quale si misurano l’efficienza, la capacità decisionale ed il profilo etico del personale addetto ad assistere i pazienti. Lazarescu si ritrova ad attraversare un ingranaggio già di per sé complesso ed arrugginito, e per di più sottoposto ad uno sforzo eccezionale che lo mette in crisi. L’agonia del malcapitato – presto diventa chiaro che gli resta ben poco da vivere – si riflette in quella di una società immatura, che va avanti a suon di rimedi provvisori, ma è incapace di darsi una struttura unitaria e formulare progetti a lungo termine. Tutto, nelle piccole come nelle grandi cose, allude alla precarietà: Lazarescu che cerca di risollevare il corpo e la mente bevendo una grappa prodotta in casa, i vicini che, per farlo stare meglio, gli offrono pillole e moussaka, l’ambulanza obsoleta, le chiacchiere sulla crisi dell’istituzione matrimoniale, il neurologo che ricorre ad una falsa raccomandazione per far passare avanti un caso particolarmente urgente, il pressapochismo ed il cinismo con cui alcuni affrontano il dramma della malattia altrui. Eppure, sotto l’obiettivo di Cristi Puiu, questa piccola bottega degli orrori non ha nulla di grottesco, rimanendo estranea sia all’iperbole allegorica della satira sia agli stereotipi della commedia dell’arte. Ciò che maggiormente colpisce, in questa rappresentazione, è l’assoluta naturalezza della messinscena, in cui il bene e il male confluiscono e si confondono pacificamente nel torbido stagno della normalità. Ne La morte del signor Lazarescu la finzione imita magistralmente il documentario, coltivandone scrupolosamente l’autenticità e l’immediatezza, dopo averle, però, accuratamente ripulite dalle impurità dell’improvvisazione.
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