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Turtles Can Fly

Regia di Bahman Ghobadi vedi scheda film

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La recensione su Turtles Can Fly

di OGM
8 stelle

Il dolore dimentica di farsi piccolo, quando entra nel mondo dei bambini. Le deformità fisiche ed i ruoli abnormi che Bahman Ghobadi, in questo film, applica ai corpi ed alle anime dei giovanissimi abitanti di un campo profughi del Kurdistan, vogliono essere il segno della terrificante sproporzione tra l’orrore perpetrato dagli adulti e le minute, fragili vite di tanti innocenti. La crescita, forzata e traumatica, indotta dalla guerra, crea uomini e donne in miniatura, costretti  a reggere un peso tanto più grande di loro. Gli enormi carichi che, in molti film iraniani, attraversano la scena sui dorsi dei muli nelle strade di montagna, o sulle spalle degli uomini nei bazar,  cedono qui il posto ad un fardello interiore di dimensioni inimmaginabili, di cui si vedono gli effetti materiali, ma di cui è impossibile abbracciare con lo sguardo la smisurata estensione. Come per una bestia da soma che percorra un sentiero ripido ed accidentato, così, anche per Soran, Agrin, Hengov, Panchow e tutti i loro compagni, ogni singolo movimento è un passo compiuto nella sofferenza: una scintilla che riaccende un terribile ricordo, uno sforzo che preme su un punto che fa male. I campi minati che circondano la tendopoli dei rifugiati sono il terreno su cui i protagonisti di questo film si trovano a dover organizzare la loro vita: un territorio limitato e irto di pericoli mortali, come tutti i luoghi infernali e remoti in cui, da sempre, vengono relegati gli indesiderati. L’unico frutto di quel suolo, pieno di sabbia, sassi ed erba secca, sono le mine inesplose: una gramigna velenosa che, per sopravvivere, bisogna pur trasformare in cibo. Il tredicenne Soran paga i suoi coetanei per recuperarle, e poi le rivende; è un imprenditore in erba, forse già uno sfruttatore, oltre ad un capopopolo, che conosce tutti i trucchi per farsi valere e guadagnare prestigio persino presso gli anziani del villaggio. Agrin è una mamma bambina,  un’orfana che, dopo l’uccisione dei genitori da parte dei soldati di Saddam Hussein, deve provvedere ad un “fratellino” cieco; Hengov è un ragazzino sminatore rimasto privo di entrambe le braccia, e che pure continua la sua rischiosissima attività;  Panchow un adolescente con una gamba malformata, che corre in qua e in là con la stampella, saltellando su un piede solo. A nessuno di loro è concesso di aspettare, di vivere la propria infanzia giocando ed imparando.   Per tutti loro, il lato oscuro e crudele della vita è la gigantesca ombra  di un universo immenso e misterioso, che su di loro proietta, da una distanza inaccessibile, tutto il male di cui è capace. La mastodontica antenna parabolica che Soran installa nel villaggio, per ricevere i canali delle televisioni occidentali, sembra la metafora di uno sforzo colossale compiuto da un popolo intero per poter arrivare a capire il perché di un così crudele destino: per raggiungere, dal quel miserevole esilio, le risposte a tante fondamentali domande, nel recesso, remoto e straniero, in cui esse si trovano scritte.    

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