Regia di Juraj Jakubisko vedi scheda film
“Il disertore e i nomadi” è il solo film fra tutti quelli che ho realizzato, che non saprei rifare meglio : è un’affermazione dello stesso Jakubisko (che nel 2000 è stato proclamato miglior regista slovacco del XX secolo da una competente giuria di critici internazionali).
Dichiarazione importante e appassionata la sua, che conferma lo speciale rapporto che lo tiene ancora indissolubilmente legato a questa lontana creatura, nonostante l’evolversi del suo percorso artistico, e che credo possa essere considerata anche il miglior biglietto da visita per evidenziare e sottolineare l’importanza di una pellicola di straordinaria e inusuale opulenza visiva come questa che io ricordo come una fra le più prepotenti emozioni vissute al cinema per la potenza quasi ipnotica delle sue immagini.
Mi sembra allora importante e fondamentale riportarla alla luce dall’oblio che l’ha avvolta, anche se al riguardo devo comunque fare una necessaria premessa, e cioè che l’opinione che segue non è il frutto di una revisione di questi giorni (per quanto mi sia impegnato, non sono purtroppo mai più riuscito a rivederla in tempi recenti, perché è davvero un titolo di non facile reperibilità, anche se credo sia stato proiettato qualche anno fa a Trieste, in occasione di una articolata retrospettiva che ha passato in rassegna tutte le più importanti realizzazioni di questo inventivo e visionario regista).
I ricordi sono dunque lontani, ma tutt’altro che sfumati, visto che le immagini sovraccariche e sfarzose di questo trittico violentemente espressionista sulla crudeltà del mondo, sono rimaste vividamente stampate nella mia mente, come accade soltanto per le cose che ti colpiscono profondamente.
Siamo in ogni caso di fronte a un’opera abbastanza complessa, difficilmente classificabile in un genere. Sovraccarica e sfarzosa soprattutto sul versante visivo, è anche zeppa di sconvolgenti metafore, e particolarmente legata nello stile e nei modi della rappresentazione, al tempo in cui è stata concepita. Non escludo quindi (anche se mi sembra impossibile) che rivista oggi possa fare un effetto diverso e meno travolgente di allora (e in questo caso chiedo venia se qualcuno dovesse avere la fortuna di incrociarla sul suo cammino e non la trovasse, alla luce della contemporaneità, del tutto corrispondente all’eccessivo entusiasmo della mia presentazione). Potrebbe insomma avere persino ragione il Mereghetti quando scrive sul suo dizionario (nel quale il titolo, pur essendo del 1968, è stato però inserito solo nelle ultime edizioni, visto che in quella del 2006 - nonostante l’importanza dell’opera non solo nella filmografia del regista, ma anche nella cinematografia del suo paese – risultava essere ancora clamorosamente assente) che è un film invecchiato in fretta: sappiamo che a volte il passare degli anni è particolarmente impietoso, capace persino di sovvertire irreversibilmente il giudizio, soprattutto se ci troviamo di fronte (come in questo caso) a pellicole di particolare valenza politica, ma di fortissima sperimentazione formale (dove per altro le allegorie sono molteplici e non tutte di immediata percezione), pesantemente influenzate dalle ormai un po’ datate avanguardie cinematografiche europee della seconda metà del secolo scorso. Per questo motivo però, proprio per non rischiare di essere considerato un po’ fuori di testa nell’esprimere tanto incondizionato consenso, chiedo in ogni caso aiuto e conforto a suffragio del mio pensiero e a conferma del positivo valore all’epoca riconosciuto a quest’opera, alle parole registrate a “caldo” da un critico eccellente come Giovanni Grazzini, analogamente rimasto affascinato dal film, che non usa certo mezzi termini per evidenziarne il valore, perché se l’ispirazione di Jakubisko può riecheggiare davvero molte delle esperienze del cinema europeo di quegli anni, è indubbio che possiede però una sua forza autonoma e intrinseca che la rende unica e inconfondibile: "Mi raccomando: via di corsa a vedere “Il disertore e i nomadi”, probabilmente la strenna più sconvolgente che il Natale riservi quest’anno agli appassionati di cinema. Siamo infatti alle prese con un film di qualità inusitata, alle soglie del capolavoro; certamente con uno dei prodotti più freschi, più originali che la vecchia Europa abbia fornito agli schermi negli ultimi anni. Quante volte, del resto, si è battuto, anche su queste colonne (credo che fossero quelle del “Corriere della sera”), il chiodo del cinema cecoslovacco, uno dei più fervidi e stimolanti nel quadro di quelle cinematografie cosiddette minori […] E quante volte si è già suonato il campanello per segnalare la grande attenzione che merita la scuola di Bratislava, tanto diversa da quella di Praga quanto i fantastici e ghiribizzosi slovacchi sono lontani dai razionali, ironici boemi? “Il disertore e i nomadi” offre a tutti, finalmente, l’occasione di verificare la legittimità del credito fatto dalla critica al più geniale fra i cineasti slovacchi, il poco più che trentenne Juro Jakubisko (il film fu distribuito in sala fra il 1969 e il 1970, e quindi quella era allora la sua età), dotato d’un brevetto d’inventore in cui confluiscono antichi e nuovi fermenti artistici, innestati con modernissimo senso dell’immagine naif sul tronco di una ricchissima tradizione folcloristica. I valori di “Il disertore e i nomadi” non sono, però, soltanto formali. Il film è sconcertante, a tratti bellissimo, per l’esuberanza visiva con cui mescola toni teneri e crudeli su sfondi scenografici allucinati, ma la sua vera grandezza consiste nell’unità d’ispirazione raggiunta fra la rinunzia al mandato propagandistico (che non è affatto una dismissione ideologica) e il delirio stilistico chiamato a pronunciarla.
Parente stretto dell’ungherese Jancsó e di quanti altri artisti dell’Europa orientale hanno vissuto esperienze per lo meno altrettanto alienanti di quelle imposte all’Occidente dalla civiltà del benessere, Jakubisko ha un’idea cupa e tetra, ma insieme eccitante, della storia, che vede dominata dal trono della Morte, figlia del Dio della Violenza e nutrice di reciproche stragi. La conferma ci viene dai tre momenti, corrispondenti ai tre episodi del film (in origine suddiviso in due mediometraggi) in cui l’umanità è condannata ad autodistruggersi dall’assurda bestialità della natura. […] Per intonare questa tragica ballata, che per molti aspetti è l’equivalente grottesco di una sacra rappresentazione, Jakubisko dispone di una magia visiva senza eguali. Come nel sabba d’un pittore nutrito di letture barocche ed espressioniste, di esempi discesi da Fellini e da Paradjanov, di modelli stilistici in cui le ingenuità dell’arte povera riecheggiano i giochi squisiti dei surrealisti, il film è un torrente d’azione e di luce, dominato da tinte soavi e perverse, che travolge in un’estasi angosciosa ogni senso razionale. Posseduto dalla violenza dell’immagine, che ha per emblema la figura della Morte impersonata da un attore sinistro e gigantesco, lo spettatore partecipa attraverso l’emozione visiva al disordine del mondo, ma nel momento in cui afferra il proprio misero destino ne riacquista anche con la fantasia tutta la gioiosa vitalità.
Film di quest’ampiezza di tastiera, così aderenti ai sobbalzi dell’anima moderna, usciti di prepotenza dal cuore e dagli occhi di artisti in tumulto, non sono quasi mai privi di difetti. “Il disertore e i nomadi” non fa eccezione alla regola: anche qui ci sono parti meno riuscite, dove l’estetismo celebra dichiaratamente i propri trionfi e la frenesia spettacolare cede all’orrido o all’arzigogolo rococò. Tuttavia è uno scotto che si paga volentieri, aghi in un pagliaio infiammato dal talento. Raramente il piacere di guardare e di scottarsi è così libero e grande come in questo bel film di Jakubisko.”
Il disertore e i nomadi, prodotto anche con i capitali italiani della Stella cinematografica di Moris Ergas, è la storia apocalittica di tre guerre raccontata in tre diversi episodi (la Grande Guerra del 1915-18; la seconda, tragica guerra mondiale degli anni ’40 e, per ultima, una fantascientifica, futuribile nuova guerra combattuta con dispiego incrociato di bombe atomiche visualizzata attraverso la rappresentazione di ciò che (non) rimane della vita su una terra definitivamente distrutta dalla catastrofe nucleare). Il film, fece la sua prima clamorosa apparizione in Italia (solo però gli episodi della prima parte del dittico inizialmente ipotizzato) alla Mostra del Cinema di Venezia del 1968, e diventò subito un “caso” non solo per il prepotente impatto emotivo che ebbe, ma anche e soprattutto perché fu presentato praticamente “in diretta” (un fatto non secondario che ribadiva la sconcertante attualità di denuncia della violenza di ogni guerra), rispetto a ciò che stava accadendo effettivamente fra Praga e Bratislava (mi riferisco alla sanguinosa repressione dei carri armati sovietici in atto in quei giorni in Cecoslovacchia). Non furono dunque sufficienti i riconoscimenti internazionali ad “assolverlo”nella sua terra d’origine: subito dopo essere stato premiato in quella rassegna lagunare e aver ricevuto un analogo, meritato prestigioso riconoscimento a Sorrento dove fu riproposto in quella torrida estate, la pellicola particolarmente sgradita al regime, fu infatti messa immediatamente all’indice (in patria ne impedirono praticamente la circolazione) e tenuta sotto chiave quale prova evidente della dissidenza ideologica di Jakubisko e della sua pericolosa attività sovversiva.
Il suo essere una coproduzione internazionale, consentì comunque al film di partecipare (sia pure fuori concorso) questa volta nella forma definitivamente compiuta delle tre parti, al Festival di Cannes dell’anno seguente dove ebbe un analogo positivo riscontro sia da parte della critica che da quella del pubblico.
Come ho già accennato, la pellicola è divisa in tre episodi ambientati in epoche diverse, ma uniti dalla presenza costante della Morte:
- nel primo (il più bello e riuscito), Kálmán, un soldato slovacco stanco degli orrori della prima guerra mondiale e incapace di cancellare dalle proprie mani il sangue dei compagni uccisi, abbandona le truppe e si fa disertore per unirsi a un gruppo di zingari che vogliono di ribellarsi al potere, mentre la Morte, riproposta nella forma e nelle vesti di un pallido ufficiale austroungarico, lo insegue tamponandolo da vicino. Qui il regista celebra magnificamente con immagini sensuali e festose, la libertà e la vita ritrovata del fuggiasco, ed evoca “dichiaratamente” attraverso un esasperato barocchismo, quell’antica Slovacchia “perduta” con i suoi riti campestri, i suoi eccessi rabelaisiani e le sue musiche struggenti. Poi però insieme agli altri disertori, il protagonista metterà davvero in atto quella fugace rivoluzione rurale con la quale tutti, a loro volta contaminati da una violenza crescente e inarrestabile, finiranno per abbandonarsi barbaramente ad eccessi sempre più brutali e tragici che li porteranno alla fine, ad essere massacrati uno per uno. Per ultimo toccherà proprio a Kálmán che sarà ucciso – allegoricamente – durante un banchetto di nozze, per mano di quello “speciale” ufficiale austroungarico che incarna la morte. Una brutale e a suo modo poetica testimonianza di disperazione, dunque dove proprio la particolare rappresentazione del personaggio della Morte, fa pensare e rimanda (in)direttamente al Bergman de Il settimo sigillo, come ebbe modo di sottolineare a suo tempo Tullio Kezich;
- nel secondo, è la seconda guerra mondiale a fare da sfondo, nella Boemia occupata dai nazisti del 1945. L’episodio racconta a suo modo il dramma della vita contadina, straziata dagli invasori, e dalla resistenza interna dei partigiani e dei soldati sovietici, un conflitto contrapposto che devasterà, con i suoi alterni massacri da una parte e dall’altra, la terra e l’anima di una Slovacchia ancor più tormentata e ferita. Più semplicemente, vi si narra di un soldato russo che, con la collaborazione di alcuni partigiani slovacchi, uccide “giustiziandolo”, un contadino, “reo” di trasportare sul suo carro un corpo umano sconosciuto. Immediatamente dopo però i partigiani si troveranno a loro volta coinvolti in uno scontro con i nazisti, che si risolve un una carneficina per ambedue le fazioni dalla quale si salverà solo il corpo custodito nel carro che è proprio - “metaforicamente”– quello della Morte rimasta in vita giusto per poter proseguire ancora nella propria missione tutt’altro che conclusa;
- nell’ultimo siamo invece in un “futuribile” domani (e con ciò che sta accadendo adesso, è forse quello che potrebbe essere di maggiore attualità con i suoi funerei avvertimenti): l’umanità è stata completamente distrutta da una guerra atomica. In un rifugio anti-atomico vivono pochi superstiti: alcuni vecchi e una giovane infermiera. Un giorno l’infermiera esce alla luce del sole insieme alla Morte, di cui forse è diventata sposa per comprendere meglio cosa è accaduto veramente. La Morte però non ha ormai più nulla da fare poiché fuori non ci sono sopravvissuti: solo aerei telecomandati rimasti in attività nonostante l’ecatombe generale, che continuano incessantemente a bombardare, e finiranno per falciare anche lei, diventata inutile per l’avvenuta estinzione dell’umanità (ancora Kezich avvertiva in questo episodio, fra i tre il più elaborato e astruso, influenze di derivazione felliniane, con la donna e la Morte che vagabondano in un mondo inanimato e desertificato con un trucco e una acconciatura molto simili a quelle di Gelsomina e Zampanò ne La strada).
Il film dunque più che pacifista, è un potente atto di denuncia contro la violenza di ogni guerra.
Come già accennato, i più riusciti sono i due episodi iniziali, soprattutto il primo, dove una strana comunità anarcoide di ribelli, mutilati e prostitute è impegnata in una specie di danza macabra con la quale fa rabbiosamente scempio di padroni e soldati, prima di soccombere a sua volta in una crescente orgia di sangue alla quale sopravvive solo la Morte, un vero e proprio tripudio di bestialità che si estende e si propaga anche al secondo episodio, entrambi realizzati in termini così allucinati, da non apparire del tutto immuni da un certo compiacimento formale, principalmente negli effetti aggressivi del colore, dove più forte si avverte la sperimentazione del regista che ha dichiarato, proprio a proposito della tecnica usata per ottenere questi insoliti risultati: ho sfruttato speciali accorgimenti visivi inserendo nella macchina da presa, al posto del negativo, un positivo colore. Ho ottenuto così una deformazione dei colori. Questo accade perché la storia è stilizzata come una pittura popolare. Vi predominano il rosso, il verde, il blu. Anche il movimento e l’azione degli attori sono stilizzati. L’ho fatto di proposito, per distanziare gli orrori e le brutalità, ai quali volevo dare la forma di uno spettacolo come lo si può vedere in un teatro popolare.
Nel terzo episodio il regista si affida invece soprattutto a un simbolismo esasperato intessuto di incubi espressionisti attraverso il quale tenta di rappresentare i disperati interrogativi posti dall’uomo a se stesso di fronte ai propri istinti di autodistruzione dai quali non riesce ad affrancarsi.
Delirante, geniale, visionario, sono gli aggettivi che più frequente sono stati attribuiti e a ragione a quest’opera davvero sconvolgente che trova solo qualche limite nella eccessiva esasperazione di una ricerca un po’ esornativa che in qualche tratto sembra diventare un po’ troppo fine a se stessa.
Ritornando comunque al ciò che scrisse Grazzini, mancherà pure un certo senso della misura a volte, ma è sempre un bel vedere, ed è uno scotto che si paga volentieri di fronte a un’opera così composita, affascinante e dolente.
Regista eccentrico rispetto agli altri nomi della sua generazione in quella nazione, Juraj Jakubisko, nato a Kajsov, nella Slovacchia orientale, il 30 aprile del 1938 si è formato nell'ambito della 'Novà vlna', la straordinaria vague cinematografica praghese degli anni '60. Nel dettaglio, Jakubisko ha conseguito il diploma alla scuola di Arti applicate di Bratislava specializzandosi in fotografia. Più tardi si è poi iscritto alla celebre scuola di cinema di Praga, il FAMU, dove ha frequentato il corso di regia tenuto da Vaclav Wasserman. Negli anni della scuola ha avuto modo di entrare in contatto con autori già affermati e importanti come Jaromil Jires, Edvald Schorm e Vera Chytilova (legherà però soprattutto col primo, condividendo con lui l’interesse per le innovazioni tecnologiche, come l’impiego di una macchina da presa molto leggera ed un inconsueto utilizzo dei filtri per alterare i colori). Con Jires collaborerà alla realizzazione di un corto, e grazie a lui avrà anche la possibilità di entrare in contatto con il teatro Laterna Magika, specializzato in opere sperimentali. L’apprendistato formativo terminerà nel 1965, anno in cui Jakubisko realizza il suo corto di diploma, Aspettando Godot, con il quale due anni dopo riceverà importanti riconoscimenti ai festival di Oberhausen e Mannheim.
Il suo vero e propri esordio ufficiale lo farà però con Kristove roky (Gli anni di Cristo) del 1967, un’eccezionale biografia che è stata anche il bilancio di una generazione, girata con stile naturale e selvaggio, ricca di ellissi e di invenzioni visive, anch’essa premiata in varie manifestazioni e che ha per protagonista un artista molto sensibile che s’interroga sul senso della propria vita. E’ indubbiamente un’opera di formazione, sulla quale il regista si è espresso così: “Il mio primo lungometraggio parla degli anni in cui il mondo smette di girare intorno a noi, delle illusioni crocifisse che, con la maturità, perdono il loro soffio”.
Si arriva così al fatale 1968, quando il 21 agosto i carri armati sovietici invadono la Cecoslovacchi: Jakubisko ha da poco compiuto trent’anni e sta girando quello che rimane il suo capolavoro assoluto, Il disertore e i nomadi, prodotto anche con l’apporto di capitali italiani che imporrà a pubblico e critica di tutto il mondo il suo estroso e personalissimo modo di fare cinema.
Altra opera importante pellicola è Vtá?kovia, siroty a bláznovia (Uccelli, orfani e pazzi, 1969), un incredibile exploit di camera creativa e montaggio poetico, dove la frantumazione di ogni stabile realtà si spinge fino all’apologia del disordine come premessa di una fatale autodistruzione. Coproduzione franco-cecoslovacca che riflette le forti tensioni connesse alla Primavera di Praga, è la storia di tre orfani che sono costretti a sopravvivere in un mondo di violenza e sopraffazione. La brutale parabola libertaria sembra voler così indicare agli uomini che è l’Apocalisse l’unico traguardo a loro destinato e al quale possono aspirare.
La tappa successiva è Arrivederci all’inferno, amici, nuova coproduzione con l’Italia che ha la particolarità di una gestazione record. Iniziata infatti nel 1970, ha potuto vedere la luce, a causa della censura comunista, solo nel 1990 perché i burocrati del regime filosovietico instauratosi dopo il 21 agosto del 1968, boicottarono la realizzazione di questo ambizioso progetto e misero al bando per quasi un decennio il regista nel corso del quale gli fu concesso di girare solo documentari. Il film tratta la bizzarra vicenda di una comunità di individui che per liberarsi da un regime oppressivo, cerca la salvezza formando una famiglia fittizia. Pur ridotto praticamente al silenzio a causa della cieca censura del regime, Jakubisko, a differenza di altri suoi colleghi che presero la via dell’esilio rifugiandosi all’estero, restò caparbiamente a lottare in patria. Saranno quelli per lui anni molto duri e frustranti, perché solo nel 1979 gli sarà concesso di realizzare un nuovo lungometraggio, Costruisci una casa, pianta un albero, seguito l’anno dopo da Infedeltà alla slovacca. Ma il suo nome riemergerà davvero dall’oblio solo nel 1984, alla Mostra di Venezia, con la versione cinematografica de L’ape millenaria (Tisícrocna vcela) che gli farà vincere nuovi premi non solo a quel festival, ma anche a Belgrado e Siviglia. Il film è un suggestivo kolossal fiabesco che vede al centro della narrazione la saga di una famiglia attraverso tre generazioni (1887-1917). Segue Frau Holle — La signora della neve, interpretato da Giulietta Masina nel ruolo del titolo, che è la trasposizione di una favola dei fratelli Grimm che passerà nuovamente dalla Mostra del cinema di Venezia di due anni dopo. Del 1987 è invece Max il lentigginoso e i fantasmi, ennesima variazione in chiave umoristica del mito di Frankenstein. Sarà poi il nuovo clima di libertà che si è instaurato a permettergli di realizzare Sono seduto sul ramo e mi sento bene, una tragicommedia con protagonisti un ladro di polli, un ex soldato e un‘ex prostituta, ambientata al tempo dello stalinismo (di nuovo proposta a Venezia nel 1989). Seguono, l’anno dopo, la favola musicale Una storia quasi rosa e, nel 1992, È meglio essere ricchi e sani che poveri e malati, una corrosiva riflessione sul dopo ’89. Il successivo Un messaggio ambiguo sulla fine del mondo (1997) è invece una nuova incursione nel mondo delle fiabe così amato da Jakubisko. La sua più recente opera della quale ho notizia, è Post coitum del 2004, che ha per protagonista il nostro Franco Nero nel ruolo di un fotografo incapace di amare (una incapacità questa che comunque accomuna anche tutti gli uomini e tutte le donne coinvolte nella storia), film molto discusso che ha suscitato qualche perplessità nel quale il regista ha largamente sperimentato le possibilità offerte dalla cinepresa digitale.
Dotato di una genialità strabordante ed eccessiva, Jakubisko si è dunque affermato (e il premio ricevuto nel 2000 quale miglior regista slovacco del XX secolo ne è la conferma) come uno degli esempi più importanti e creativi di quel cinema della crisi che in Cecoslovacchia ha cercato di resistere a ogni prospettiva di normalizzazione anche negli anni bui della repressione comunista, ed è proprio per questo che merita di essere ricordato anche da noi con una particolare menzione.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta