Regia di Robert Redford vedi scheda film
Il processo ai complici di John Wilkes Booth nell’assassinio di Lincoln è diretto dalla ragion di stato: serve una punizione esemplare, che non guardi tanto per il sottile sulle responsabilità individuali, in modo da piegare anche in tribunale il Sud appena sconfitto sui campi di battaglia. Il film è la dimostrazione di un teorema: quando le sentenze vengono scritte dal potere politico anziché dai giudici, la democrazia è in pericolo. Redford lo affronta con un piglio anni ’70 gradevolmente fuori moda (tanto per chiarire il concetto: l’avvocato difensore di Mary Surratt, una volta lasciata la professione, diventa redattore del “Washington Post”, neanche fossimo ai tempi del Watergate), eppure trova le parole giuste per ammonire l’America del dopo 11 settembre e di Guantanamo (è accettabile che in situazioni di grave emergenza, in nome della sicurezza nazionale, si abbassi lo standard delle garanzie giuridiche concesse agli imputati?); evita sottotrame complottiste, come pure sarebbe stato possibile data l’ambiguità della figura di Booth, e si concentra sul nocciolo del problema. Nella Hollywood attuale sembra rimasto l’unico a nutrire ancora certi ideali, e la sua passione civile è contagiosa: fa un cinema che può sembrare didascalico e manicheo, specialmente a chi va in visibilio davanti a qualunque cosa faccia Eastwood, ma che andrebbe tutelato come gli animali in via di estinzione.
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